mercoledì 28 dicembre 2011

Lezione dimostrativa gratuita per principianti assoluti. Udine, 10 gennaio 2012, circolo Arci Zoo


Segnalo con piacere la lezione dimostrativa gratuita per principianti assoluti presso il circolo Arci Zoo di Udine, martedì 10 gennaio 2012 dalle 20.00. Si tratta di un appuntamento divenuto ormai tradizionale nell’ambiente udinese, con la possibilità di provare in un ambiente sereno e rilassante, anche senza bisogno di essere in coppia. Tutte le informazioni su: http://mymtango.blogspot.com/

giovedì 22 dicembre 2011

Tango inesorabile. Una quasicinquantenne alle prese con la passione amorosa, di Syusy Blady

Nota al grande pubblico televisivo per trasmissioni di successo come ad esempio Turisti per caso e Velisti per caso, la conduttrice televisiva, regista, attrice e cabarettista Syusy Blady sceglie il tango come ambientazione del suo romanzo d’esordio. Il libro tratteggia le vicende di Germana, donna di fantasia che l’autrice presenta come specchio di se stessa: è un percorso introspettivo nella vita di una dona italiana, ex barricadiera, esponente di quella generazione che “ha fatto tutte le rivoluzioni” la quale attraversa una fase della vita dove né la famiglia, né la raggiunta sicurezza economica, né la realizzazione professionale sono sufficienti a metterla al riparo da un momento di crisi e di disorientamento.
La ricerca della propria liberazione fa quindi da motore narrativo delineando una serie di situazioni che vedono Germana al fianco di altre figure femminili, presentate di volta in volta come alleate, confidenti o rivali nella conquista. Il tutto è collocato in una palpabile atmosfera di politicamente corretto con sottili rimandi all’ambiente bolognese, animata da un corteggio di comprimari quali terapisti di coppia che hanno divorziato tre volte, amanti, gay bisessuali in cerca d’amore, “maschi diffettati” che si palesano come milongueri pieni di complessi.

Le questioni affrontate riguardano temi non banali come il significato del proprio stare al mondo, l’equilibrio fra passione e ragione, il diritto/dovere di reinventarsi con il tempo, la possibilità di far evolvere i sentimenti come spazio di libertà nella cornice dei rapporti di coppia, la ricerca dell’amore oppure il senso ultimo dei propri sforzi, il tutto interpretato da un punto di vista al femminile usando le differenze di genere come possibile chiave di lettura.
Le risposte purtroppo appaiono deludenti, tanto sul piano della forma che della sostanza.
Sul piano della forma, il romanzo ha una trama piuttosto esile, spesso poco più che il pretesto per una sorta di diario interiore che trascrive emozioni e sentimenti della protagoniste alle prese con le vicende narrate. L’originalissima idea finisce pervenir rovinata nel giro di poche pagine da un atteggiamento comunemente indicato con l’espressione mentalizzare. Il verbo denota il comportamento di chi non vive in modo spontaneo e naturale il sentimento verso un’altra persona, bensì lo analizza con la ragione. Invece di lasciar liberamente fluire le emozioni, sperimentando l’arricchimento che esse possono donare, le si passa al setaccio della ragione mettendole sotto la lente del giudizio o costruendovi un sovrasenso che è completamente intellettuale. Non ci si domanda semplicemente se si è felici o meno, bensì ci si logora inutilmente chiedendosi se la relazione corrisponda o meno alla propria idea preordinata di rapporto ideale, in che misura in nostro partner coincida con modello che ci siamo costruiti negli anni, in cosa somigli o non somigli a precedenti rapporti, magari cercando di incasellare la storia in categorie, oppure tenendo una meticolosa contabilità dei sentimenti con colonne distinte per il dare e per l’avere.
Certo, applicare un briciolo di giudizio è un realistico indice di maturità e poi alzi la mano chi non ha mai pensato “Sarà un disastro perché ha l’ascendente scorpione”, oppure ha involontariamente visto nel partner il riflesso di una persona sgradita. Io stesso mi metto nel mucchio.
Il problema è che qui la mentalizzazione è semplicemente diluviale. Dopo qualche pagina si finisce travolti da un cicaleccio inconsistente, sgradevole come tutto ciò che tratta futilità come fossero questioni degne della più seria considerazione.

Sul piano dei contenuti, le risposte offerte al lettore sono solo verità ‘piccole’, di corto respiro, fragili, su cui domina un senso di incerto e malsicuro. La continua ricerca di novità per sfuggire alla noia, il rifiuto di qualsiasi progetto come mezzo per tenere viva la passione e l’eccitamento, l’aspirazione a vivere istante per istante, il piacere di “far casino”, l’aspirazione ad una vita piena che però si riduce al vagheggiamento di poter “prendere senza chiedere”.
La stessa conclusione finisce per attestarsi su questa linea, con in più un sentore vagamente new age. Nelle ultime pagine la protagonista riconosce che l’unica via per la pace interiore è smettere di desiderare, lasciarsi portare del flusso delle cose senza cercare una direzione, abbandonare una ricerca affannosa che è comunque inane. Sono precetti non del tutto sconosciuti ai giorni nostri poiché l’idea di “lasciarsi attraversare dalla vita” o il concetto taoista di Wu wei (agire senza agire, agire tramite la non azione) sono stati coscienziosamente popolarizzati da ambienti vicini alla cultura orientale.

Da un punto vista europeo, piace tuttavia osservare che le battaglie civili di cui Germana va giustamente orgogliosa presuppongono il desiderio di non subire passivamente una situazione bensì di mutarla in forme più umane, mentre l’autentico progresso è stato opera di uomini e donne che hanno consapevolmente deciso di indirizzare le proprie energie in una precisa direzione piuttosto che verso nessuna in particolare. Difficile quindi non sperimentare qualcosa di oscuro nel seguire le vicende personali di una donna che viene presentata come imbevuta di femminismo e forgiata da anni lotte per la parità dei sessi salvo poi imbattersi in un dialogo come quel che segue:


- Dimmi che sei la mia schiava -, Lei dice di sì. – E non abbiamo ancora scopato, - dice lui.

Vuote chiacchiere, si potrebbe dire. Ma le parole non sono neutri giochi linguistici da valutare in astratto, sono pur sempre i segni delle nostre idee. Nella conclusione non si percepisce quindi il sereno incamminarsi verso una quieta felicità, piuttosto un senso di resa, una nave disancorata che si perde alla deriva, con un messaggio di fondo avvilente e scoraggiante. Resta addosso un vischioso senso di sconfitta, l’imbarazzo nel constatare la fragilità e la fallibilità di ogni aspirazione umana che aspiri ad essere autentica e ben fondata, specie quando ci viene messa davanti agli occhi l’attitudine ad arrenderci senza condizione ai nostri fantasmi. “Il tango” – ci viene ricordato fin dalle prime pagine – “è una nostalgia che si balla, è un anticipo di infelicità prima che arrivi la depressione. Quella pesa”.

Si è quindi di fronte ad una scelta. Interpretare il romanzo con leggerezza, ironia e distacco, come una demistificazione giullaresca che non va presa mai troppo sul serio - suggestione inevitabile data l’immagine di irriverente guastafeste che l’autrice si è costruita nel corso degli anni - e tutto questo a tacere della stessa copertina, che fa il verso in modo allegro e scanzonato ai più truci cliché del genere. L’alternativa è leggerlo come una rielaborazione di desideri, comportamenti e fatti che esistono nella realtà di tutti i giorni indipendentemente dalla trasposizione letteraria che ne ha fatto l’autrice.
Nel primo caso non si arriva molto lontano. Se il libro è capace di fornire al lettore l’intrattenimento che egli cerca, allora esso è automaticamente un buon libro, a prescindere dall’esistenza o meno di un epilogo consolatorio, dall’adesione o meno del lettore ai comportamenti rappresentati o di qualsiasi forma di giudizio. Se invece l’aspettativa rimane delusa si tratta solo di modesta letteratura, senza necessità di altra e più profonda valutazione. Uno svago dunque perfettamente legittimo, esattamente come io posso trovare gradevoli le situazioni tipiche di un film d‘azione in quanto tali, senza che provi il desiderio di emularle o di condividerne le spinte profonde, ad esempio appiattendomi fra i cespugli con la bandana di Rambo in fronte o conservando in casa un piccolo arsenale (rassicuratevi: non faccio né l’una né l’altra cosa).
Nel secondo l’interpretazione si fa più stimolante, poiché la sfida è proprio quella di trovare un possibile nesso fra il tango e le varie situazioni narrate. Il compito non sembra facile. La danza in quanto tale occupa infatti una solo manciata di pagine in tutto il romanzo, mentre nella parte rimanente del testo essa è solo uno sfondo piuttosto convenzionale, poco più che un espediente narrativo per mettere in scena un certo numero di personaggi e soprattutto le loro relazioni. Verrebbe da liquidarlo come una modesta operazione di marketing, uno dei tanti casi in cui il ballo rioplatense è utilizzato a sproposito così da rendere appetibili contenuti che altrimenti avrebbero una presa ben modesta.
Perché dunque i protagonisti del romanzo agiscono in questo specifico ambiente e non nella cornice di un corso di Pilates, tanto per citare qualcosa di ugualmente alla moda?

Una delle possibili risposte a questa domanda chiama in causa l’influente sociologo polacco Zygmunt Barman (Poznań, 1925). L’incertezza che caratterizza il presente, il disfacimento dei legami tra gli individui, le nuove e inedite forme estreme di individualismo, l’affermarsi di un tipo umano afflitto dalla solitudine, egoista o addirittura narcisista, lo stordimento di uomini e donne che si scoprono dilaniati tra il nulla offerto dall’esterno e lo svuotamento interiore sono fenomeni spiegati con le metafore di liquido e solido. Il concetto di liquido, in particolare è stato applicato a vari aspetti della collettività umana tra i quali, caso per noi più interessante, i rapporti fra le persone (Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, 2003; trad. it. Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, 2005).
Non riporto qui la brillante e persuasiva analisi delle cause del fenomeno, invitando chi legge a procurarsi l’affascinante saggio nella bella edizione Laterza. Mi concentrerò invece su un aspetto in particolare. Come il liquido non ha consistenza propria, prende la forma del recipiente che lo contiene e si caratterizza per essere tanto mobile quanto inafferrabile, così le relazioni tratteggiate da Baumann sono mutevoli, instabili e ostinatamente refrattarie ad una durevole gratificazione.
La più desiderabile forma di relazione uomo donna, sempre secondo l’autore, è un rapporto basato su un coinvolgimento sì intenso ma volutamente poco profondo, in cui viene esclusa a priori qualsiasi forma di legame affettivo durevole o di progetto condiviso, una sorta di investimento a ritorno immediato, destinato per giunta ad essere liberamente revocato non appena uno dei due non sperimenti più la stessa soddisfazione oppure si profili un partner più appetibile con cui meglio soddisfare un’ansia di varietà e di novità che si rinnova sempre.
Ricorda qualcosa? Per non avesse trovato la risposta da sé, lascio la parola ad una voce non sospetta di partigianeria, quella di Elisa Guzzo Vaccarino (Il tango, Palermo, L’Epos, 2010):
[…] non si può dimenticare quante tensioni abitino il salòn dove ci si ritrova per l’avventura di una notte di tango dagli esiti sempre imprevedibili. […] nel caso di chi arriva singolarmente al ballo, la tensione femminile nel competere per ottenere l’invito più gradito ed evitare quello sgradito, la tensione maschile per evitare passi falsi nell’invitare le donne in attesa e per competere con gli altri uomini in bravura e/o nel garantirsi le migliori ballerine o le partner più desiderate e appariscenti (pp. 61).

C’è, ad ogni modo, un elemento che colpisce, tornando concretamente al ruolo e all’atteggiamento maschile a milonga: le lunghe attese, su un lato della sala, in piedi o seduti per visionare la sala, esaminare lo donne e la loro qualità. Un attesa che può essere inquieta, nella speranza di trovare qualcuno già noto o di trovare la magia del tango nella rivelazione di una partner ancora da scoprire – il che però comporta grandi esitazioni – o nella delusione preventiva di non avvistare niente di tutto questo e nel timore, inoltre, di essere respinto da chi potrebbe essere interessante. Si innesca un meccanismo di coazione a ripetere quest’esperienza, nel principiante per farsi animo, nell’esperto per selezionare, che all’occhio esterno manda sensazioni di eterna insoddisfazione, desiderio frustrato e inguaribile. Pari a quello delle donne, sedute in attesa, le quali aspettano un cenno di invito e non lo ricevono perché sconosciute, senza compagno o un gruppo di amici che permetta loro di mostrare ciò che sanno fare, o perché troppo brave, troppo riservavate e così via (pp. 158-159).

Questa potrebbe essere una possibile e forse inedita via per capire come mai il tango abbia tanta facile presa nella società contemporanea. Per l’indiscussa qualità estetica e l’evidente valore di una tradizione illustre, direbbero i sostenitori allineati su posizioni tradizionali, per il piacere di riappropriarsi di netti ruoli maschili e femminili, afferma ad esempio un’interpretazione di taglio più sociologico, oppure perché i meccanismi relazionali che si sviluppano a milonga convengono inconsapevolmente verso il modello teorizzato dall’insigne sociologo, quindi trovano un terreno fertile su cui crescere e persone pronte ad accoglierli. La pratica sociale del tango dunque, nascerebbe moderna prima della modernità e sarebbe liquida senza sapere di esserlo.
Da questo punto di vista il libro acquista una luce tutta diversa e sembra davvero di leggere una rassegna dell’inconsistenza eletta a sistema. Coniugati che tradiscono per sfuggire alla noia del menage, si trovano un amante il quale a sua volta si trova una terza donna così da poter manipolare la seconda facendo leva sui suoi sentimenti. Comportamenti presentati come moderni ed eccitanti, senza che nessuno noti il sottile senso del ridicolo di donne prossime alla menopausa che si atteggiano ad adolescenti. Meschinità spacciate per astuzie, piccinerie vendute per raffinate arti seduttive, il tutto svuotato di ogni significato e valore e ridotto ad una specie di passatempo ozioso per ingannare il tempo e scappare da qualcosa.

*   *   *

Non è affatto raro trovare nei testi del tango la disperazione, la tristezza, il rimpianto per la perdita di qualcosa ormai irraggiungibile oppure la disillusione esistenziale. Discepolo, fra i tanti, ne ha dato esempi conosciutissimi. Qualcosa del genere circola anche nel romanzo, ma in forme vagamente postmoderne che sarei tentato di battezzare come “l’irrilevanza del bene”. Poiché la felicità non esiste è del tutto inutile cercarla; quindi meglio arraffare velocemente quel che c’è sotto mano sperando di trovare una gratificazione bastevole.
Nel romanzo la norma si declina grossomodo così. La persona giusta e la relazione felice non esistono. Mettersi in testa di cercarle è solo una pericolosa illusione da cui occorre liberarsi fin che si è in tempo, magari andando proprio a ballare.
Provi il lettore a prendere le esperienze narrate nel libro sotto l’etichetta di tango e ad accostarla ad una qualunque delle autentiche miserie che affliggono il mondo, oppure a metterle accanto ad un proposito realmente altruistico che ciascuno di noi può facilmente sperimentare nella vita di ogni giorno: donare sangue, ripulire un pezzetto di bosco o anche solo adoperarsi per rimediare al male fatto. Il contrasto insostenibile rivela la natura ambigua di tutte quelle operazioni che confondono la realtà con i suoi simulacri e i suoi travestimenti. Sarà un caso, ma le uniche pagine dove si coglie una sincera partecipazione sono due brevi passi, slegati dal contesto, in cui si tratteggia il lento scivolare di un anziano nelle nebbie delle demenza senile, ovvero una vicenda del tutto estranea all’argomento principale.

Conosco l’obiezione. Le cose stanno così, non si può fermare l’evoluzione della società, inutile armarsi per una battaglia di retroguardia persa in partenza, meglio adattarsi di buon grado a ciò che è comunque ineliminabile. Peccato che “le cose stanno così” sia stata la risposta tipica a chi faceva notare come non sia saggio lavare le cisterne delle petroliere in mare, trattare le gestanti con il Talidomide oppure ostacolare l’uso di energie rinnovabili.


Non accadeva nel Medioevo, solo una o due generazione fa. Inoltre le stesse idee che apparivano allora come oltraggiosamente utopistiche sono ora integrate non solo nel sentire comune ma persino nel diritto.
Butto là come provocazione, ma chi mi garantisce che fra qualche decennio la più solleticante delle trasgressioni non sarà un creativo sadomaso tedesco, bensì sperimentare la semplicità degli affetti in quanto tale, senza paludarli con inutili costruzioni mentali? Oppure non aver bisogno di un’elaborazione di cultura, di un fulcro esterno che troviamo bello e pronto al momento giusto, per imparare a vivere con gioia pulita quel che si potrebbe già trovare in noi stessi?
I miei mezzi sono modesti e imperfetti, quindi ognuno si dia la risposta che preferisce, tendendo ben presente che per ogni persona che stigmatizza la modernità liquida come un sottoprodotto disumano del progresso, apportatore di solitudini e sofferenze, ce ne sono altrettante pronte a celebrarla come un’eccitante liberazione dello spirito che promette piaceri ed emozioni da gustare con leggerezza, senza eccessive preoccupazioni. Pare che almeno in questo caso la più incisiva metafora per definire il tango sia quella di un albergo senza arredamento: ciò che una persona vi trova entrando è solo quello che ha portato con sé.

*   *   *

È mattina presto. Un treno risale la pianura padana facendo rintronare i ponti di ferro sul Po mentre scivolano via gli ultimi banchi di nebbia di aprile. A bordo c’è un giovane diretto ad un funerale. Dovrà prima incontrarsi con una madre di famiglia, la quale per lunghi anni ha avuto una ribollente relazione con un uomo sposato con figli, relazione che entrambi hanno nascosto alle rispettive famiglie con acrobatici sotterfugi. Incontri rubati, gioie fuggevoli, per tutti e due l’ambita fuga da relazioni ormai appannate che non hanno più lo stesso smalto dei primi anni di matrimonio.
Poiché egli è uno dei pochissimi che conosce entrambi e sa tutti i dettagli della loro relazione, ha scelto di accompagnare lei in chiesa per l’ultimo saluto. Mentre il celebrante ricorda la promessa evangelica della riunione in cielo ed al pulpito si avvicendano amici e parenti per testimoniare le virtù domestiche dello scomparso, la donna piange silenziosamente sulla sua spalla, nella penombra di un angolo odoroso di polvere e di legno vecchio.
Hai già scorso il romanzo e ti stai chiedendo a che pagina compaia quest’episodio? Posa il libro, lettore, perché non lo troverai. Quel giovane sono io e nella cassa c’era un amico consumato dalle metastasi. E in tutto quello che sentii quel giorno di inizio primavera non c’era nulla di trendy.

Solo un angosciante vuoto.


Cos’è piaciuto

- Raffigurazione molto vivida di certi aspetti della società attuale.

Con non è piaciuto

- Ennesima ripetizione di un’idea ormai troppo sfruttata;  
- Un’ambiguità di fondo, spesso contraddittoria, fra la pratica sociale della danza e le tante storture umane.

Il giudizio in una riga: Scrittrice per caso.

La frase da ricordare: “- Dimmi che sei la mia schiava -, Lei dice di sì. – E non abbiamo ancora scopato, - dice lui”.

Scheda: Tango inesorabile : una quasicinquantenne alle prese con la passione amorosa / Syusy Blady - Torino : Einaudi, 2004 - 172 p. ; 21 cm ISBN 88-06-16941-6 Euro 10,80





martedì 13 dicembre 2011

Tango. Storie d’amore e di avventura a Buenos Aires, di Carlo Rossella

Carlo Rossella, giornalista, scrittore, direttore di giornali e testate televisive, noto dirigente d'azienda, racconta la sua personale esperienza del tango e dell’Argentina in un volume di 24 racconti brevi dal significativo sottotitolo: “Storie d’amore e di avventura a Buenos Aires”.
Sono in realtà dei quadri, dei piccoli studi d’atmosfera, brevi frammenti narrativi che talvolta arrivano a conclusione nel giro di una pagina e mezza o poco più. Nella loro concisione paiono sicuramente interessanti per lo sforzo di asciugare all'estremo la scrittura, togliendone tutto il superfluo e l’inessenziale. Una possibile suggestione è data anche dal grande contrasto fra il pathos di situazioni anche drammatiche, che sono appunto tipicamente “da tango”, e il minimalismo con cui esse sono presentate al lettore: non solo la stringatezza estrema del racconto, ma anche il totale distacco del narratore che impiega una scrittura asciutta, povera di metafore ed immagini, con una misurata aggettivazione. Chi legge viene quindi chiamato a lasciarsi dire qualcosa dal testo, ovvero a completare l’inespresso e il non detto con un processo mentale autonomo. Che accadrà ora? Perché lui o lei hanno deciso di agire così? Cosa non ci viene raccontato? Che significato ha questo o quel dettaglio?
Il modello, non dichiarato espressamente ma riconoscibile, parrebbe una certa atmosfera alla Borgés, quel senso di surreale e di assurdo che infiltra silenziosamente la quotidianità. Nonostante l’indiscutibile talento di osservatore, l’esito rimane diseguale. A volte  risultato è assai convincente, altrove prevale la sensazione è di un certo intellettualismo, spesso algido e cerebrale, evidente quando si prova a condensare la struttura narrativa ai minimi termini:

Un uomo ricco vive con una donna attraente, la  quale balla il tango da sola poiché egli non ne è capace. Rimasto a casa, sperimenta la gelosia, finché lei rincasa tardi con addosso un percepibile profumo maschile. Dopo che lui glielo ha fatto notare, la donna prepara la valigia in silenzio e sparisce nella notte. Lui rimane a guardare il cielo.(Un addio sotto stelle cadenti, pp. 49-51)
L’intenzione è senza dubbio quella di rappresentare assieme al tango tutto l’universo umano e sociale dell’Argentina contemporanea. Alcuni racconti sono indubbiamente riusciti, mentre in altri la musica, la danza ed i testi sono un filo conduttore piuttosto evanescente, talvolta una semplice allusione, un ammiccamento al lettore. La stessa Buenos Aires arriva qua e là in modo ovattato, come semplice sfondo di una vicenda che potrebbe essere ambientata ovunque senza perdere il suo significato. La sensazione è che l’ambiente del tango sia un facile humus su cui far crescere delle trame e coltivare delle storie, ma raccontare il tango sia molto più difficile.
Il testo vorrebbe essere anche una testimonianza di prima mano su due complessi momenti storici, la dittatura prima e la crisi economica poi, ma il risultato non riesce a suscitare il coinvolgimento del lettore. Salvo qualche elemento di crudo realismo, la guerra delle Falkland e gli orrori della repressione arrivano perlopiù in modo attenuato: titoli di giornale, notiziari alla radio, allusioni di poche righe, mentre non sempre si trova una denuncia esplicita. I vertici militari sono infatti colti in situazioni che tendono a presentarli in modo piuttosto neutro: attempati guardoni che spiano i camerini delle boutiques femminili, frequentatori di fattucchiere, uomini impacciati alle prese con le mille difficoltà di una tresca, spesso raffigurati in situazioni boccaccesche.
L’autore non tace i momenti più critici della congiuntura, l’inflazione galoppante o il dollaro alle stelle, ma lo fa in modo piuttosto etereo, come se fossero questioni astratte e non drammi che incidono sulla sostanza reale della vita. Ci sono, è vero, delle eccezioni, ma lo sguardo indugia perlopiù su un universo di privilegiati, gente che veste Armani e Chanel, quarantenni che hanno ereditato una banca (sì, un istituto di credito, non un mio errore di battitura per natante), ambasciatori che vengono svegliati premurosamente dal maggiordomo, persone in genere troppo ricche per dover lavorare che ciondolano annoiate da un club esclusivo all’altro con un aria di inconcludenza e superficialità. C’è una strana e disarmante sensazione nel vedere come il tango (che è stato soprattutto voce degli ultimi, espressione di nostalgia, sradicamento, rimpianti, difficoltà, manifestazione anche disperata di dolore esistenziale e di felicità impossibili), venga usato come l’abbellimento un po’ convenzionale di ambienti e situazioni che non parrebbero aver alcun bisogno di qualcuno che le celebrasse.
Il libro, dedicato a Giuliano Ferrara, è legato ad una particolare esperienza professionale dell’autore. Come Rossella stesso spiega in premessa, Tango nasce proprio dai lunghi mesi passati in un hotel di Buenos Aires nel 1982: poiché le notizie scarseggiavano, il soggiorno si svolge “in modo affatto spiacevole”, fra “buone letture, incontri, feste, tertulias con artisti e intellettuali, confabulazioni con oppositori al regime, opere al Colón e tanghi”, il che, tradotto in modo smaliziato, significa all’incirca fare il turista con i soldi altrui. Il testo è stato poi rielaborato fra Saint-Tropez e una crociera nelle isole greche “a bordo del favoloso Altair”, ospite dei Della Valle.
Speriamo che non si sia stancato troppo.

Cosa è piaciuto
  • La copertina (il che è tutto dire).

Cosa non è piaciuto
  • Atmosfere troppo cerebrali e distaccate;
  • Celebrazione di persone e situazioni che non meriterebbero di essere incensate.
Il giudizio in una riga: Fosse stato scritto da un italiano qualunque, su un gommone a Fregene, l’avrebbe pubblicato Mondadori?

La frase da ricordare: Ricordare?

Scheda: Tango : storie di passione e di avventura a Buenos Aires / Carlo Rossella - Milano : Mondadori, 2005 - 83 p. ; 20 cm. - ISBN 88-04-54393-0  Euro 9.00




  

venerdì 2 dicembre 2011

Milonga al Gran casinò di Lipizza / Lipica

Uno dei più singolari aspetti dell’animo tanguero è senza dubbio l’incessante curiosità nell’esplorare luoghi insoliti, verificandone l’adattabilità alla pratica del ballo. Mi è accaduto così di frequentare milonghe organizzate nel sottoscala di un bar di periferia, nella rimessa di macchine agricole, in stazioni ferroviarie, negli spazi  un centro commerciale e questo a tacere di una molteplicità di iniziative nate in una dimensione informale e semi-domestica.
Le milonghe organizzate a Lipizza negli spazi del Gran casinò credo rappresentino un caso a dir poco straordinario, poiché per entrare occorre infatti passare dalla reception della casa da gioco. Gli assoluti sono sempre pericolosi, ma potrebbe essere l’unico caso in cui la decisione di andare a ballare tango  presupponga: a) la presentazione di un valido documento d’identità; b) essere fotografati e registrati; e infine c) ricevere 5 euro in fiches come regalo di benvenuto, denaro che per la cronaca ho perso goffamente nello spazio di qualche minuto puntando da pivello su improbabili combinazioni alla roulette.



Difficile collocare lo stile della sala in un ambito preciso. Pareti tinteggiate in viola si alternano a lucide trasparenze di plastica verde, mentre buona parte delle superfici sono occupate da una riproduzione di stalattiti e stalagmiti in polistirolo, a dare l’illusione di trovarsi in una grotta carsica. Si balla sotto gli occhi di telecamere (ne ho contate 13, ma sono – ovviamente – solo quelle visibili) mentre accade che la voce di Carlos Gardel si mescoli a tratti con quella di un volonteroso croupier dalla morbida e vellutata dizione, il quale annuncia i numeri del bingo e le rispettive vincite.

Messa in questo modo parrebbe da dimenticare, ma sono ritornato a casa con l’idea di aver passato una delle più piacevoli esperienze degli ultimi tempi. L’aspetto maggiormente degno di nota è che nulla viene fatto per dissimulare l’esatta natura dello spazio e la sua precisa funzione, spazio che viene serenamente presentato tal quale. Il risultato è quindi autoironico e leggero, con un’aria di divertente mascalzonata, e l’esito pare ancora più evidente quando lo si confronta con il tono austero e sostenuto di certe milonghe di lunga tradizione, spesso pervase da un’atmosfera di pomposa seriosità.
Modestissimo il contributo in denaro per la serata, per altro chiesto a titolo volontario, mentre l’ampiezza dello spazio a disposizione e il pavimento in laminato assicurano ampie possibilità anche in caso di folla. La scelta musicale è ispirata ad un pragmatico eclettismo che pesca liberamente dai generi, a volte mescolando vals, tango e milonga, a volte con proposte decisamente interessanti: ho scoperto con interesse la ballabilità di interpreti italiani della metà del ‘900. Inedita, a quel che mi risulta, anche la scelta di inserire cortine ballabili di liscio. Manca il buffet, ma bar e ristorante sono a pochi passi.

“Non sono legata a nessuna scuola o gruppo”, mi racconta la gentile Milena Zerial, volonterosa animatrice dell’iniziativa “Questa proposta è solo l’espressione di  un gruppo di amici a cui piace stare assieme e condividere un’esperienza autentica”. Proposito senza dubbio meritorio, specie se si ricorda come i differenti approcci conducano non di rado alla reciproca diffidenza, quando non addirittura ad un certo strisciante settarismo. Si tratta poi di uno dei pochissimi casi in cui entrando ho avuto la netta sensazione di essere accolto e trattato come una potenziale persona gradita, al di là della mia totale estraneità a quello specifico ambiente.
Davvero una sensazione curiosa verificare come l’ambiente di una sala da gioco, che nell’immaginario comune si associa ad un’eleganza raffinata e distinta, sia ormai dominato dal più informale abbigliamento casual, fatto da pochi elementi di arraffati a casaccio dall’armadio. Per altro, nel settore dedicato alla milonga si percepiva il gusto non tanto dell’apparenza, bensì della gratificante cura di sé, magari manifestandola con la scelta di una calda femminilità nell’abbigliamento. Parrà cosa da nulla, ma riconforta e ingentilisce la vita.
E infine la differenza fra il piano di sopra, popolato da una platea di tante solitudini diverse, facce alienate, spente del gioco, ed il piccolo miracolo della sala con le pareti dai colori improbabili, dove la pratica del ballo lascia spazio all’umanità, alla condivisione di emozioni e sentimenti ed al piacere di dedicarsi insieme ad un’attività creativa.

E scusatemi se vi sembra poco.

mercoledì 30 novembre 2011

Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarvi, di Raffaella Passiatore

L’esperienza del ‘900 ha ormai reso familiare l’idea che il valore artistico di un’opera sia del tutto indipendente della gradevolezza o meno della cosa rappresentata. Si può quindi fare dell’ottima letteratura basata sul dolore o sulla sofferenza, senza per altro sentirsi vincolati alla descrizione di sentimenti elevati o all’inserimento di una conclusione rassicurante. Del pari, una tela che raffiguri il disfacimento, il degrado e la morte può essere altrettanto valida di un quadro con soggetti ameni e leggiadri. Nelle forme più estreme ciò ha condotto ad una vera e propria estetica del trash e del pulp, che sono rispettivamente il compiacimento nel rappresentare tutto ciò che è privo di contenuti estetici o dichiaratamente anti-artistico, oppure il gusto per la carnalità, l’eccesso, la dismisura grossolana o il plebeo.
Raffaella Passiatore, un’artista italiana trapiantata a Salisburgo che si esprime attraverso la poesia, autrice di prosa, drammaturga, librettista, coreografa, regista, artista di palcoscenico, musicista e ballerina di tango, sembra aver tenuto bene a mente queste idee nella stesura di Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai voluto raccontarvi. Racconti.
Già sulle prime il testo appare di incerta collocazione. L’espressione “tutto quello che avreste voluto sapere” suggerisce un intento didascalico, o almeno tendenzialmente oggettivo, mentre la parola “Racconti” presuppone invece una componente di fantasia e di immaginazione che è propria della creazione artistica in senso stretto. Il confine tra le due rimane vago e il compito di tracciarlo viene lasciato alla sensibilità del lettore.
E’ in sostanza una serie di brevi racconti, interrotta da un’ampia digressione, che rielaborano l’esperienza personale dell’autrice come ballerina di tango fra Austria e Germania. Non si tratta quindi di un reportage tendenzialmente oggettivo, bensì di un’esperienza che arriva al lettore filtrata e modulata dalla personale sensibilità della scrittrice. Il risultato è però radicalmente diverso dall’idea convenzionale che potremmo avere della scrittura al femminile. Si percepisce infatti un chiaro gusto del parlar grasso, il compiacimento nel chiamare le cose con il loro nome, senza tanti moralismi e giri di parole, come pure il desiderio di mettere davanti gli occhi del lettore gli aspetti più prosaici e terreni di ogni cosa. Trucco che si scioglie, calze rotte, calli dolenti, acconciature che si disfano sono elementi ricorrenti nelle descrizione di corsi, stages e milongas, con un effetto finale sospeso tra il dissacrante e il grottesco. Potrei sbagliarmi, ma credo sia l’unico libro autobiografico sul tango argentino in cui compaia la parola “rutto”.
Traspare un evidente amore per la teatralità narrativa mentre il registro risulta quasi sempre iperbolico, denso di metafore, sopra le righe, spesso eccessivo e oltre misura. La protagonista ha il sangue così caldo “da cuocerci dentro gli spaghetti”, le sue risate “avrebbero fatto esplodere i vetri delle finestre”, un ballerino ben piantato fa tremare la terra con i passi come un novello King Kong, il dolore alle estremità è descritto come rischio di amputazione di piedi e via dicendo su questo tono. La descrizione è quindi scopertamente caricaturale anche se il risultato non pare sempre all’altezza dell’intuizione di partenza, che pure rivela un’indiscutibile ragione d’essere e un’altrettanto rispettabile autonomia espressiva. Si ha invece la sensazione che l’autrice si lasci prendere troppo facilmente la mano e che quindi l’esito risulti sforzato, quasi una posa da palcoscenico troppo ostentata. Pare a volte di leggere la trasposizione testuale di un cartone animato, con tutte le convenzioni proprie del genere: le bocche si dilatano fino a proporzioni irreali, dagli occhi zampillano torrenti di lacrime, il protagonista scagliato contro muro vi apre delle crepe  e via dicendo.


L’iperbole come convenzione rappresentativa tipica del mondo dell’animazione e del fumetto: da sinistra a destra, tristezza, sorpresa, rabbia.

Noi stessi usiamo simili mezzi espressivi tutti i giorni (“E’ una vita che aspetto l’autobus”) ma qui la sensazione generale è quella di uno strumento utilizzato un po’ a sproposito, laddove non se ne sente affatto il bisogno. L’effetto è divertente sulla prime, ma annoia ben presto e dopo qualche pagina risulta francamente pesante.
La realtà è immancabilmente colta nei suoi aspetti più bassi e carnali, da cui un testo grassamente umorale, ricco di sensazioni tattili, di odori spesso ingrati, di situazioni prosaiche. La bruttezza, l’impresentabile, lo sgradevole vengono esibiti senza pudore. Non stupisce quindi che gli uomini incontrati dalla protagonista siano perlopiù dipinti come creature semi-animalesche, puzzolenti grassoni sudati, esseri scomposti dalle mediocri capacità, intontiti  dall’alcool oppure dediti alla più improbabile seduzione spicciola. I pochi (o le poche) che non rientrano in questo repertorio di umanità disperata sono invece ammantati di luce accecante: il testo scivola allora verso l’ineffabile ed è tutto uno sprecarsi di tempeste ormonali, rimescolamenti di visceri e inturgidimenti vari.
Una valutazione serena non può tuttavia dimenticare alcuni indubbi meriti. La sezione dedicata alla classificazione semiseria dei maestri di ballo è un’autentica perla e lo stesso può dirsi di un’altrettanto felice analisi degli annunci presentati dalle diverse scuole o dai vari festival di tango, dove anzi lo sguardo implacabile della protagonista ha l’effetto di smascherare il convenzionale, l’artefatto o addirittura l’assurdo di tanti contenuti che si pretendono accattivanti e ben confezionati.

*       *       * 
Recensito perlopiù come un testo comico di tono leggero, il racconto pare invece più vicino ad un’idea di umorismo pirandelliano, la cui vena corrosiva è percepibile dalla prima all’ultima pagina. Mi sembra anzi che nell’operazione di Raffaella Passiatore ci sia qualcosa di avvicinabile ai lavori di Duane Hanson (Alexandria, 17 gennaio 1925 – Boca Raton, 6 gennaio 1996) uno sculture americano noto per le sue sculture iperrealiste raffiguranti gente comune alle prese con attività del tutto ordinarie: una coppia di turisti che riproduce i più tipici cliché dell’americano in vacanza all’estero, una casalinga in bigodini che spinge un carrello di supermercato, un’anonima inserviente e così via.
 
Dapprima si sorride compiacendosi della propria pretesa superiorità nei confronti dei modelli, ma subito dopo emerge una sensazione di angoscia nel contemplare delle persone che in fin dei conti non sono molto diverse da noi. La semplice trascrizione fedele e implacabile della realtà, presentata tal quale senza nessun tipo di abbellimento, agisce quindi come uno smascheramento e una denuncia feroce di tutto l’assurdo che circonda le nostre esistenze. Infatti la nostra condizione può rivelarsi compiutamente solo quando la osserviamo dall’esterno, mostrandosi in tal modo per quello che è: spesso inaccettabile, ottusa, alienata, ingiusta e disumana.
Allo stesso modo, se si prescinde dall’umorismo e dalla caricatura, certe pagine Raffaella Passiatore rivelano delle profondità insospettabili. Il dissacratorio vale infatti anche come esortazione al disincanto, demolizione di orpelli culturali e inutili luoghi comuni, invito perentorio a rifiutare ogni sorta di abbellimento posticcio della nostra esperienza. La loro semplice contemplazione disincantata finisce per portare alla luce tutto lo sgradevole e l’impresentabile che offre lo stare al mondo. Un po’come se l’autrice ci dicesse a chiare lettere che la nuda verità della vita è esattamente così come viene raccontata, senza finzioni, senza falso lirismo o inutili travestimenti. Siamo quindi obbligati a guardarla negli occhi con coraggio perché altra e diversa realtà semplicemente non esiste.
Quando questa recensione era ancora allo stato di abbozzo, feci leggere la prima stesura ad un’intelligente e profonda compagna di tango che mi ha arricchito di un prezioso punto di vista femminile sull’argomento. Essa mi ha fatto notare come la maggior parte dei libri sull’argomento finiscano inevitabilmente per celebrare il ballo e l’ambiente che lo circonda, il cameratismo con i compagni di studio, la magia dell’abbraccio, la spontaneità, lo stato di gioia, un muto dialogo espresso dai corpi che interpretano e condividono una musica, il cuore con quattro gambe, il tacito patto responsabilità/fiducia tra uomo e donna, la raffinata sensualità ed eleganza che emana dalla coppia che danza in sintonia e via su questo tono.
La protagonista balla, gradisce il tango, le piace la milonga, non ne può fare a meno. Malgrado questo presenta tutto il peggio, esagerato ed elevato all’ennesima potenza, del suo vissuto personale, delle sue esperienze, grottesche, amare, tristi. Non per niente vive nella terra di Freud. Difficile, fastidioso, imbarazzante ma pur sempre ostinatamente reale. Un po’ come un reportage di guerra: mette davanti senza filtri, senza preavviso, ciò che non si vorrebbe mai guardare.
Detta altrimenti, un merito non trascurabile del libro è anche quello di metterci in guardia sulla nostra difficoltà a distinguere i documenti dalle semplici rappresentazioni culturali: gli uni sono modelli tendenzialmente oggettivi della realtà, gli altri invece non descrivono il mondo com’è bensì come noi vorremo che fosse, ovvero sono una proiezione dei nostri desideri e dei nostri bisogni.

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Dunque niente magia, sogni, sentimenti. Invano si cercherebbe umanità, comprensione o empatia nello sguardo che l’io narrante dell’autrice rivolge al mondo che la circonda. Il suo giudizio è di volta in volta cinico o disincantato, spesso addirittura gelido verso ciò che non apprezza, non capisce o non si allinea alla sua visione delle cose. Le riviste di tango contengono perlopiù “idiozia”, mentre la visione di uno spettacolo di danza euritmica gli ricorda senza tanti giri di parole “un teatro dell’assurdo in una casa per malati di mente”. Su tutto aleggia un’atmosfera blasé, un’espressione che si immagina di annoiato scetticismo, quello storcere il naso di fronte alla irrimediabile pochezza delle milonghe di provincia, piene di uomini di modesto talento e poca avvenenza, oppure il fastidio a stento trattenuto per la mediocrità altrui. A volte l’autrice non sembra tanto mettere in scena tutte le possibili meschinità del tango, bensì ricordarci qualcosa di ben diverso e assai più profondo: la nostra costante incapacità di essere felici.
Non affannatevi dunque a scoprire nel testo la serena consapevolezza dei limiti personali, il pacato riconoscimento della propria fragilità e fallibilità, l’umano desiderio di essere teneramente coccolata nell’abbraccio, né tanto meno un senso di meraviglia e di stupore per la bellezza rivelata dalla danza. La protagonista si muove sulla scena del tango come un rullo compressore, in un nichilismo ostentato che travolge persino se stessa: tornare a casa e smettere l’abito da sera è per lei è semplicemente “gettare il puttanismo nella lavatrice”. Tanto di cappello ad una coerenza senza dubbio non comune, se solo si pensa alla frequenza con cui gli scrittori si nutrono di compiacenti fonti autobiografiche.
Sarà la vaga atmosfera teutonica che promana sin dalle prime pagine, ma se si volesse trovare un equivalente pittorico all’agire della protagonista non viene in mente la diafana morbidezza delle donne di Alphonse Mucha, bensì certe raffigurazioni dell’espressionismo tedesco, quelle figure femminili aspre, spigolose, a volte grottesche, dipinte con colori dissonanti.

 

Da sinistra a destra: Alphonse Mucha, La danza; Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne nella strada.

Il tutto è ovviamente opinabile finché si vuole. L’incontestabile esistenza della solitudine, dell’abbandono e del tradimento non è forse la spinta più concreta a ricercare le tenerezze dell’amore romantico? Già, forse si ride, ma a mio parere in modo amarissimo.

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Il libro si può accostare ad “Amore tango” di Maria Finn, essendo entrambi racconti autobiografici di donne che esplorano l’universo della danza. Gli esiti sono tuttavia diversissimi. La scrittrice newyorkese, pur nei limiti di una semplice struttura narrativa, è un personaggio indubbiamente ben confezionato: sperimenta la sconfitta, vive in prima persona il senso di fragilità e di inadeguatezza, ma alla fine si riscatta e riconquista la serenità tramite un’evoluzione interiore ed una trasformazione personale che le aprono nuovi orizzonti. Un personaggio con cui è abbastanza facile identificarsi, o che perlomeno  riscuote facilmente la simpatia di chi legge.
L’io narrante di Raffaella Passiatore rimane invece perfettamente uguale dall’inizio alla fine, mantiene sempre lo stesso atteggiamento e risulta ostinatamente impermeabile a qualsiasi suggestione possa venirle dall’esterno. Tutta la sua esperienza personale, così come viene raccontata, sembra anzi intonata a qualcosa di grigio, freddo e duro, che sa di rigidità teutoniche e di cieli sconfinati color cenere: la tristezza delle sue lunghe domeniche solitarie da single, le sedute con il suo psicanalista, di cui ormai confessa di non poter più fare a meno, le sere a bere champagne da sola a lume di candela (e scolarsi l’intera bottiglia), i viaggi da un posto all’altro per ritrovare alla fine sempre le stesse cose.
Sorprendentemente numerose sono invece le analogie sul piano del vissuto personale: entrambe donne colte e intelligenti, con un matrimonio fallito alle spalle, una serie di esperienze sentimentali inconcludenti e infine l’approdo al tango come esperienza assorbente e totalizzante.
Viene da sospettare che ogni epoca storica rielabori costantemente il proprio modello di eroina sfortunata. Come l’Ottocento aveva le sue Mimì consumate della tisi oppure le sartine sedotte ed abbandonate da aitanti ussari, così il XXI secolo produce colte ed emancipate donne di successo, perennemente oppresse da relazioni infelici o insterilite dalla solitudine, le quali ad un certo punto della loro vita chiudono la partita con il genere maschile, concludono di poter bastare a sé stesse e si dedicano anima e corpo ad un’attività gratificante che non richieda eccessivi investimenti emotivi. Sempre irrequiete, perennemente inappagate, costantemente in movimento. Chi parla con il gatto, chi abbraccia gli alberi, chi colleziona viaggi attorno al mondo e chi – appunto – impara a ballare.

Cos’è piaciuto:

  • Indubbio e meritorio coraggio nel procedere controcorrente, allontanandosi completamente dal repertorio dei soliti luoghi comuni;
  • Radicale operazione di demistificazione, forse opinabile nei fini, ma condotta con notevole coerenza;
  • Insospettabile profondità di alcune implicazioni esistenziali.
  
Cosa non è piaciuto:
  • Gusto dissacratorio di maniera, spesso semplicemente fine sé stesso;
  • La demolizione dei luoghi comuni non apre nuovi scenari o conduce a proposte alternative.
Il giudizio in una riga: Potrebbe essere Pulp Fiction ambientato a milonga. Ma se proprio non siete fan di Quentin Tarantino rischia di sembrarvi politically incorrect per partito preso.  

La frase da ricordare: “La musica cessò ed io mi fermai di colpo”.

Scheda: Tutto quello che avreste voluto sapere sul tango e nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarvi : racconti / Raffaella Passiatore - Bari : Florestano, 2006.  - 89 p. ; 21 cm. - ISBN 88-901857-4-0 Euro 9,50

lunedì 14 novembre 2011

A Carlo Gasparini, in memoriam

Ho conosciuto Carlo Gasparini nell’estate del 2011, quando accompagnò me ed altre persone a me care in una serie di discese lungo i torrenti del Friuli Venezia Giulia.

Ricordo non solo la capacità tecnica e la sicurezza che comunicava in ogni momento, ma anche la serenità, l’equilibrio e il profondo senso di rispetto con cui egli sapeva rapportarsi a tutto ciò che avevamo intorno.
La cosa che più mi colpì di lui era l’assenza di qualsiasi spirito competitivo, l’idea cioè che non fosse necessario misurarsi con le difficoltà e vincerle. Mi rimangono le sue esortazioni a non lottare contro l’acqua, bensì a capirla, ad assecondarla a lasciarsi “dire” qualcosa da essa, senza cercare di sovrastarla o di dominarla con la forza fisica o la perfezione del mezzo tecnico.
La mia ultima immagine che ho di lui è nelle forre dell’Arzino, nelle grandi vasche prossime all'uscite. Distesi a riposare su una roccia levigata, entrambi guardavamo silenziosi il cielo di un pomeriggio sereno. La luce già inclinava furtiva verso l’autunno e le foglie oscillavano nell’aria calma fino a posarsi sull’acqua turchese e scivolare via portate dalla corrente. Senza che me ne accorgessi, compresi che era salito su un alto sperone e quando lo individuai stava già tuffandosi nel profondo, riemergendo pochi istanti dopo accanto a me.  “Proseguiamo” – mi disse con voce calma – “è il momento di andare avanti”.   

Addio Carlo. Scendi sereno i torrenti del Cielo.


Paestum, Tomba del tuffatore (480-470 a.C.)
Metafora greca del passaggio dalla vita alla morte.

sabato 12 novembre 2011

Invitare a milonga usando il fluido irresistibile

Mi sono trovato fra le mani l’edizione italiana di un curioso manualetto pratico edito alla fine degli anni settanta. Titolo e grafica di copertina sono tutto un programma: Come imparare a ballare perfettamente in otto giorni.
Per quanto riguarda l’argomento specifico del tango il testo non ha particolare interesse. L’autore si occupa infatti solo della versione da sala, e perlopiù accredita una bizzarra teoria evolutiva che vuole il tango di origini spagnole, portato in Argentina dagli zingari (!).
Le parti più gustose sono invece i tre capitoletti finali dove viene proposta una lettura d’assieme della danza come pratica sociale nonché alcune considerazioni psicologiche sul suo apprendimento. Il testo è ispirato da un pragmatismo tipicamente angolosassone, lontano da sottigliezze filosofiche ed anzi non privo di un certo spirito competitivo. Detta in soldoni: il ragazzo va a ballare per imporsi sui suoi coetanei, le ragazze per alimentare la propria popolarità. Obiettivo di entrambi, presentato senza tante ipocrisie, è accrescere le proprie quotazioni e fare piacevoli incontri, ovvero  la classica scena dl ballo fra liceali, così come è stata presentata da svariati film e serie tv che hanno portato nelle case di tutto il mondo un momento topico dell’American way of life.
Sono pagine da leggere con occhio un po’smaliziato, e un non piccolo piacere è proprio quello di individuare quanto gli anni hanno reso obsoleto e ciò che ogni generazione deve invece immancabilmente tenere mente. Prima di tutto manca qualsiasi accenno all’interpretazione del movimento, alla consapevolezza di ciò che si sta facendo, ed ogni cosa viene ridotta alla sicurezza di un “saperci fare”. Peccato che nessuno colga mai l’inevitabile ironia e la profonda contraddizione di tutti i materiali dedicati ai principianti assoluti. Se qualcuno non ha mai ballato in vita sua è assai difficile che riesca a padroneggiare adeguatamente il movimento giovandosi solo di una vaga descrizione testuale e di qualche schizzo, chi invece sa già cavarsela con disinvoltura non trova alcun giovamento dal leggere una descrizione di ciò che già sa fare, e va semmai alla ricerca di nozioni a livello più elevato.
Non mancano sadici consigli su come sbarazzarsi di un partner sgradito (a cui occorre far capire l’antifona a colpi di maligne stilettate sui pedi), strizzate d’occhio sulle possibilità di ascesa sociale, l’immancabile consiglio sulla pulizia personale e infine ricette infallibili su come evitare un rifiuto. Come potrete leggere nelle pagine 182-183 riprodotte sotto, basta suggestionare la ballerina con gli occhi mentre le si rivolge l’invito, pensando intensamente a ciò che si vuole ottenere. Se riuscirete a farle “sentire il vostro fluido” nessuna donna potrà tirarsi da parte e la prescelta di turno cadrà infallibilmente ai nostri piedi. “Questa forza è irresistibile”, aggiunge l’autore, affettandosi a precisare che “chiunque può ottenere lo sguardo magnetico”. Proviamo anche noi?

venerdì 4 novembre 2011

Fausto Carpino y Stephanie Fesneau ad Udine

Segnalo con piacere il seminario e milonga con esibizione tenuto da Fausto Carpino y Stephanie Fesneau, sabato 12 novembre 2011 presso il Circolo Arci ZOO, via Fiume 13 – Udine.


Approfondimenti, calendario delle lezioni e contatti su: http://mymtango.blogspot.com/2011/10/seminario-milonga-con-esibizione-con.html

venerdì 14 ottobre 2011

Ancora sulla recensione de: Il tango ritrovato. Un diario di viaggio nel tango di oggi, di Haim Burstin

Ricevo e volentieri pubblico un intervento di Haim Burstim a proposito della recensione de Il tango ritrovato:

Da: haim.burstin@unimib.it
Data: 13/10/2011 15.59
A: "Dr. Zero"<dr.zerotango@libero.it>
Ogg: Re: Nuova recensione de “Il tango ritrovato”

Caro dottor Zero,
la ringrazio di cuore della sua recensione che ho letto con piacere e interesse. E' senz'altro la più attenta e raffinata che il mio libretto sul tango abbia ricevuto: quanto di meglio potrebbe sperare un autore.
Ma c'è un'altra ragione per cui la leggo con soddisfazione
Ho scritto questo libretto senza vanità e senza premura. Ho atteso molti anni prima di credere che ne valesse la pena e senza particolari aspettative, se non quella di fare cosa utile al micro-mondo dei miei amici del tango. Da quell'ambiente - spesso assai poco "autoanalitico" e solitamente disimpegnato - mi sono arrivate in questi anni testimonianze affettuose e riconoscenti. Ogni tanto mi scrivono persone sconosciute, che mi testimoniano come questo  libro abbia dato loro qualcosa.   Ho scritto altri libri per il mio lavoro, che mi sono costati senz'altro più fatica, con buon riscontro scientifico, ma non la sensazione di aver fatto qualcosa di particolarmente utile e gradito a qualcuno. Ecco, questo sul tango invece mi sta dando quello che altri lavori non mi hanno dato.
Metterò la sua recensione tra i risultati più positivi di questa impresa.
La ringrazio ancora vivamente e spero, prima o poi,  di conoscerla di persona.
Un saluto cordiale

Haim Bursitn

Tango nuevo, di Monica Gallarate e Giorgio Proserpio

Monica Gallarate e Giorgio Proserpio, maestri e ballerini professionisti, sono i protagonisti dell’ottavo volume del Corso di tango in DVD pubblicato delle leccesi Sigillo Edizioni.  
I movimenti proposti sono svariate decine, ordinatamente presentati in una sequenza organica che inizia con una serie di esercizi mirati, prosegue per raggruppamenti tematici e termina infine con la proposta di numerose ed efficaci concatenazioni. Le riprese sono in esterno, da una posizione leggermente elevata con inquadratura perlopiù a campo medio e un uso efficace dei movimenti di macchina. Le figurazioni vengono presentate dai due ballerini che danzano assieme, evitando la consueta scelta di illustrare separatamente i movimenti dell’uomo e della donna: né del resto potrebbe essere altrimenti, trattandosi di movimenti che presuppongono l’equilibrio condiviso tra i partner oppure dei passaggi in fuori asse. Il movimento viene commentato a turno dai due, mentre un efficace montaggio utilizza di volta in volta riprese rallentate, primi piani o inquadrature da diversi punti di vista. Semplice e intuitivo il menu di navigazione.
La colonna sonora non appartiene al repertorio elettronico, bensì sfrutta orchestre tradizionali: l’accostamento a prima vista sembrerebbe forzato, ma il risultato è senza dubbio felice e soprattutto nulla toglie alla chiarezza didattica.
Il non leggerissimo prezzo di copertina (35 Euro) è per altro giustificabile dalla ricchezza dei contenuti. Nel libretto allegato, il solo elenco delle figure proposte corre infatti per tre pagine e mezzo a cui seguono una serie di testi che presentano il tango nuevo nel suo doppio aspetto di musica e danza, evidenziando in modo equilibrato gli elementi di rottura e di continuità con la tradizione. La stessa introduzione al DVD avverte che i movimenti illustrati non costruiscono un esercizi fine se stessi o proposte coreografiche, ma sono riproducibili anche a milonga, sempre tenendo presenti le limitazioni dettate del buon senso. Riproduzione e stampa sono di tipo professionale, buona inoltre la qualità video, del doppiato e della colonna sonora.
Nella la scena del tango nuevo, si tratta di un prodotto di particolare interesse trattandosi di uno dei pochissimi contributi video in lingua italiana, se non l’unico in assoluto. La sua utilità è indiscutibile per chi possieda già le basi di questa forma di danza e ne abbia assimilato almeno i concetti essenziali, potendo così facilmente attingere ad una vasta libreria di movimenti da utilizzare per arricchire rapidamente il proprio repertorio. Assai meno plausibile un suo utilizzo per l’auto-apprendimento da zero di colgadas e volcadas, ma questo è un limite comune a tutti i video corsi.

Cos’è piaciuto:
  • Ordine e metodo nella presentazione;
  • Qualità audio-video;
  • Ricchezza dei contenuti.
Cosa non è piaciuto:
  • Nulla.
Il giudizio in una riga: Se partite proprio da zero meglio cominciare con qualcosa di meno tecnico, in tutti gli altri casi è un DVD da non perdere.

Scheda: Tango nuevo / Giorgio Proserpio e Monica Gallarate - Lecce : Sigillo, [2008] - 1 DVD video (ca. 70 min) ; 12 cm + 1 fasc. ([8] c. ; 17 cm). - ISBN 88-89990-01-5 978-88-89990-01-8 Euro 35,00

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mercoledì 12 ottobre 2011

Tango. Storia dell'amore per un ballo, di Robert Farris Thompson

La diffusa nozione di “versione ufficiale del fatti” si fonda su alcuni presupposti:

  • Viene elaborata dopo gli eventi, spesso a distanza di tempo: non è dunque una cronaca in tempo reale o un diario;

  • È indirizzata ad uno scopo specifico, funzionale alle necessità di un gruppo egemone (ricerca del consenso, legittimazione, autoassoluzione ecc.);
  • Presuppone un atteggiamento di selezione arbitraria delle fonti fatta con criteri diversi da quelli della ricerca storica. A certi fatti viene data particolare enfasi, altri sono accantonati, altri ancora presentati in modo tendenzioso.
In estrema sintesi, il messaggio del libro si può dunque compendiare proprio in questi termini: la storia del tango come oggi la conosciamo è grossomodo la versione ufficiale elaborata dalle classi colte di origine e tradizione europea. Si tratta in realtà di un ballo essenzialmente africano, di cui i bianchi si sono appropriati in modo più o meno surrettizio, presentandolo scorrettamente come una propria elaborazione culturale e oscurandone così le vere origini. Il tutto si basa su un’affascinante schema interpretativo, la cosiddetta ‘cultura afro-atlantica”. In un arco che va dal Mississippi al Rio della Plata, la diaspora dal continente nero si è infatti variamente ibridata con altri modelli dando vita ad un fenomeno sostanzialmente unitario, ancora riconoscibile grazie ad un nucleo di elementi comuni.
L’opera rivela un indubbio coraggio intellettuale ed è facilmente leggibile anche in chiave terzomondista. La sopraffazione dell’oppressore bianco che ruba non solo terra e risorse ma anche la cultura dei popoli oppressi è infatti un tema che sembra fatto apposta per suscitare qualche mal di pancia, e la stessa prefazione avverte come parte dei contenuti potrebbero risultare assai indigesti ai cultori del tango di stretta osservanza.
La stessa pubblicazione dell’edizione italiana è segnata da riconoscibili compromessi di vendibilità. Un libro che dovrebbe onestamente chiamarsi Le origini africane del tango o giù di li viene introdotto da una levigata immagine di copertina che ritrae due ballerini dalle fattezze spiccatamente europee, la presentazione sulla bandella si diffonde su tutto fuorché sulle radici nere, mentre le parti editoriali nel loro complesso ammiccano al più tradizionale immaginario collettivo. Il libro si propone invece come una salutare demolizione delle cosiddette vulgate, ovvero di tutte quelle spiegazioni troppo semplificate di fenomeni complessi, prese per buone perché riprodotte tal quali da più fonti diverse e quindi accettate senza spirito critico dalla platea di fruitori. Esse infatti riconfermano ciò che il pubblico già sa, o piuttosto crede di sapere, dunque sono spesso refrattarie a qualsiasi tentativo di revisione o di approfondimento critico.
Si tratta quindi di una lettura senza dubbio affascinante, utile per allargare i propri orizzonti seguendo il filo di scoperte sempre nuove. Una delle sezioni più gustose è infatti un glossario dove l’autore analizza vocaboli ed espressioni attestate nella cultura rioplatense, svelandone la derivazione da idiomi africani. Nella travolgente Tango negro di Juan Carlos Cacéres avete forse considerato il ritornello “borokotò, borokotò, chás-chás” una specie di vocalizzo privo di senso compiuto, inserito a scopi puramente fonetici? È in realtà un’onomatopea bakongo che annuncia l’inizio di un rituale nella foresta, frase giunta fino a noi attraverso la mediazione del candombe e delle altre forme di musica e danza che hanno plasmato il tango delle origini. Invano cerchereste la parola Jumba - titolo di un trascinante tango di Pugliese - in un dizionario di spagnolo del Siglo de oro: si tratta in realtà di un vocabolo sacro congolese, che indica il comando di Dio, la forza costruttrice che fa accadere le cose. Lo stesso Farris sottolinea la parentela jumba - rumba, a conferma di un insospettabile comune denominatore legato alla diaspora africana.
Non a caso l‘autore si diffonde estesamente sulla milonga come genere musicale, distaccandosi però nettamente dalle spiegazioni consuete che la presentano come una semplice variante allegra, veloce e scherzosa. Essa si colloca sì accanto al tango, ma si soprattutto prima di esso: è infatti il genere più vicino alle origini, dove si può cogliere più facilmente l’influsso africano rivelato ad esempio dal senso del sacro, dall’idea della celebrazione collettiva o dalla condivisione di un patrimonio comune di emozione e sentimenti. L’autore ci regala anzi una delle più belle e poetiche definizioni di milonga, evocata allusivamente come “esperanto creolo della notte”.
Non meno ricche di dati le parti apparentemente più scontate, come ad esempio la sezione sul tango nel cinema. Le traversie di Ultimo tango a Parigi con la censura sono infatti ben note, ma è invece assai meno conosciuto il veto che fu imposto al film dalla giunta miliare argentina, un aspetto che privò il paese di un’opera indubbiamente controversa, ma soprattutto di un vivo e costruttivo dibattito sulla propria cultura. Accanto a riferimenti ormai radicati nell’immaginario collettivo o comunque ben noti, Farris pone inoltre l’attenzione su una delle più insospettabili scene di tango che si possono rintracciare nelle arti visive, ovvero la sequenza di Soldato d’Orange (1977) di Paul Verhoeven in cui un ufficiale nazista nell’Olanda occupata costringe un ex compagno di scuola, ora agente segreto degli alleati e futuro eroe nazionale, a danzare con lui un tango fra uomini. L’autore ne da una lettura socio-politica, ovvero l’imposizione della volontà maschile come metafora dell’aggressività hitleriana, ma l’inserimento di quest’episodio di fantasia nella trama di un film d’autore non pare una deprecabile banalizzazione. Semmai è la spia di come il tango aspiri ormai da tempo a diventare un linguaggio universale, non più legato al suo contesto d’origine bensì adatto ad esprimere i sentimenti e le idee umane su scala tendenzialmente amplissima.

*      *      *
Se la grande ricchezza di dati e di notizie appare incontestabile e l’intento del libro è senza dubbio meritorio, il giudizio complessivo sul lavoro è più complesso. Per semplicità possiamo dividere la tesi di Farris in due parti:
  • La storia di Buenos Aires si è alimentata di un consistente apporto di cultura africana, ma questo fenomeno è stato progressivamente obliato man mano che scompariva la popolazione nera che ne era portatrice;
  • Le origini del tango sono essenzialmente africane, e gli apporti più significativi nella sua storia sono dovuti a persone di colore.

La prima parte è argomentata in maniera convincente con il ricorso ad un ampio numero di fonti diverse, tra cui spiccano quelle iconografiche. Farris rivela tutto il suo talento di antropologo nel decifrare particolari apparentemente casuali o secondari di dipinti, schizzi, disegni e incisioni, spesso illuminando il significato di dettagli che sfuggono ad un’osservazione superficiale: la foggia degli abiti, la postura e la gestualità delle figure oppure gli stessi arredi rivelano una storia nascosta e del tutto insospettata.
Per quanto riguarda la seconda, il giudizio non è così netto. Che una parte anche rilevante della storia del tango sia di matrice africana viene senz’altro dimostrato con prove che paiono molto solide; che nel vortice della storia questi apporti siano stati minimizzati in favore di una versione più rassicurante che enfatizza i contributi europei è parimenti plausibile, ma che ogni aspetto del tango sia spiegabile solo con queste radici non sembra altrettanto piano o perlomeno non viene argomentato in modo altrettanto convincente.
A volte si ha quasi l’impressione che l’autore si lasci prendere la mano finendo per vedere radici africane laddove forse non ce ne sono affatto. È purtroppo una debolezza che accomuna molti cultori di scienze umane che si innamorano della propria area di studio e finiscono per non vedere altro. Come uno storico di formazione marxista riconosce le dinamiche della lotta di classe dietro ogni fenomeno, così Farris si trasforma a volte in un’impalcabile macchina da guerra che macina negritudine a quattro ruote motrici, a volte con risultati un po’ irreali.
L’autore ad esempio ammette la mancanza di fonti certe che spieghino la circolazione antioraria nella sala da ballo, salvo inserire subito dopo una dotta divagazione sul simbolismo africano del cammino del sole, evidenziandone le profonde implicazioni metafisiche tipiche del continente nero. Proprio quando il lettore si attende la consueta prudenza che caratterizza gli specialisti accademici (Farris, nato nel 1932, è infatti un cattedratico a Yale) viene invece buttata li una conclusione formulata in termini assai perentori: “In Argentina il cammino del sole divenne il cammino del tango”. Chissà cosa ne pensano i cultori di tutti i balli di tradizione schiettamente europea, danze che condividono le stesse regole di circolazione: il valzer deve nascondere perlomeno un simbolismo celtico e la mazurca vantare come minimo sopravvivenze sciamaniche.

Torniamo al testo. Forse l’ocho si chiami così perché il movimento pare disegnare quella cifra sul pavimento della sala? Troppo semplice e scontato. Farris cita rapidamente questa spiegazione, ma subito dopo si incammina sul solito sentiero: 
Dovendo scegliere fra una spiegazione semplice - che presuppone la semplice convenzionalità oppure il mero caso -, ed una piuttosto lambiccata, ma coerente con i presupposti di fondo della ricerca, si finisce fatalmente per scivolare verso la seconda. Se poi si mette sotto i riflettori solo uno dei tanti fattori che contribuiscono all’evoluzione di un fenomeno molto complesso e lo si presenta quindi al lettore come l’unica causa determinante, allora l’esito è quello che sappiamo.
In Congo, chi esegue un assolo si gira da una parte e dall’altra (zeka), facendo degli ochos. Lo fanno per cambiare la direzione del ballo (n’ini meti zeka ngodi mu soba lusunga lwa makinu). Lo schema a otto si chiama zinga ngodi (letteralmente ‘intrecciare due cerchi’). Viene eseguito come segno di equilibrio (kinenga). Ma c’è anche un interpretazione più profonda: ballare descrivendo due cerchi significa rappresentare “due modi di vivere, e “affondare nelle tradizioni per poi tornare”. [Si tratta] di un antico emblema di equilibrio bakongo (equilibrio tra i sessi, tra i due mondi) che in Agentina venne creolizzato fino a diventare il passo più assertivo della donna nel tango.
Su un piano più generale, le fonti di Farris sono spesso assai interessanti ma paiono interpretate con eccessiva disinvoltura, vuoi presentando come fatti certi quelle che sono piuttosto delle ipotesi, vuoi insistendo in modo eccessivo sull’analogia esteriore come prova di reale affinità, oppure – nello specifico - spingendo sul diffusionismo come unico modello interpretativo. Si assume cioè che taluni riconoscibili caratteri culturali partano da luoghi specifici e si propaghino geograficamente, il che giustifica come aspetti simili si ritrovino in zone diverse del pianeta. Dunque, se A somiglia a B, allora il più antico ha influenzato il più recente, oppure entrambi hanno un capostipite comune ancora più remoto.
Il percorso appare legittimo ma la fiducia nel metodo è forse eccessiva. Va notato come il diffusionismo sia solo uno dei modelli usati in antropologia e perlopiù quello dov’è più facile prendere degli abbagli, ad esempio concentrandosi su somiglianze puramente epidermiche, oppure non prendendo in considerazione l’ipotesi di semplici convergenze evolutive, quando cioè due fenomeni apparentemente simili sono il risultato di un percorso completamente diverso.
Questi e simili atteggiamenti sono stati elegantemente parodiati da Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault, un romanzo di successo dove si tratteggiano le vicende di un gruppo di persone che lavorano in una casa editrice di testi occultistici. Essi acquisiscono man mano la forma mentis dei loro improbabili autori sviluppando così una sorta di logica alternativa dominata da irrazionali connessioni fra i fatti più disparati, in cui tutto dimostra tutto. Finiscono  così per scorgere rivelazioni, significati ermetici e verità nascoste in qualsiasi cosa, dagli oggetti di uso comune alle vicende storiche e culturali, finché verranno travolti dal loro stesso gioco in un drammatico finale.

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In altri casi le obiezioni non riguardano il metodo bensì i contenuti.
Il primo esempio è lo striminzito capitoletto sul contributo italiano: sono 44 righe in tutto di cui un buon terzo sembra confezionato mettendo insieme banalità piuttosto ovvie. L’autore introduce l’argomento  ricordando che in un museo di Buenos Aires è conservato un dipinto che raffigura dei suonatori di strada a Venezia (!); prosegue ricordando la reciproca stima fra Gardel e Caruso; racconta di aver trovato delle notazioni in italiano in un partitura di tango (ma è la consueta terminologia del tipo pianissimo, espressivo ecc. che si usa universalmente nella musica colta); cita una fonte indiretta del 1913 che parla di donne italiane che modificano l’interpretazione del ballo e infine aggiunge quella che sembra l’unica considerazione sensata: l’influenza di Rossini in Horacio Salgán e Osvaldo Pugliese. A ciò si aggiungono pochi altri accenni sparsi in altre pagine. Tutto qui?
È inoltre utile osservare come un libro molto recente (l’edizione originale è del 2005) si fermi con i continuatori di Piazzolla. Farris accenna infatti al contributo di Ziegler, di  Aslán e soprattutto  dell’orchestra El Arranque, un complesso presentato con un lirismo francamente enfatico: “sfidano i limiti”, “superano i confini della coscienza”. Peccato che fin dal  2001 i Gotan Project siano diventati un fenomeno addirittura planetario adottando un’estetica musicale che parrebbe legittimo descrivere negli stessi identici termini. Si può obiettare che sintetizzatori e  drum machine non siano assolutamente riconducibili alla nozione di tango (posizione legittima al pari di quella contraria) ma nel bene o nel male non pare lecito ritenerli trascurabili. A fingere di non vedere quel che non piace si fa di solito una modesta figura.


Cos’è piaciuto:
  • Meritorio coraggio intellettuale e spiccata originalità;
  • Capacità di esplorare e presentare fonti poco note al grande pubblico;
  • Ricchezza di informazioni e di documenti.

Cosa non è piaciuto:
  • Metodo un po’troppo disinvolto e copertura parziale del fenomeno.

Il giudizio in una riga: Da leggere assolutamente, come arricchimento culturale e utile ampliamento di orizzonti, ma conservando sempre un po’ di spirito critico.

La frase da ricordare:n’ini meti zeka ngodi mu soba lusunga lwa makinu”.

Scheda: Tango : storia dell'amore per un ballo / Robert Farris Thompson ; prefazione di David Byrne ; traduzione di Chiara Brovelli - Roma : Elliot, 2007 - 411 p. : ill. ; 25 cm Euro 22,00