lunedì 17 dicembre 2012

Ritorna la milonga all'ex bananificio. Udine, 22 dicembre 2012

Da un paio di mesi a questa parte le parole "milonga", "bananificio" e "Udine" sono costantemente in testa a tutte le statistiche di questo blog. Fa quindi piacere che in occasione delle festività natalizie venga riproposta la bella iniziativa del 6 ottobre scorso. Tutti ci auguriamo che questa simpatica proposta replichi il grande successo della prima sera, sempreché i simpatici Maya decidano che il tango sia un buon motivo per rimandare di un giorno la fine del mondo. Tutti dettagli dell'evento su tanghitudine.


mercoledì 17 ottobre 2012

Recensione: Tango elettrico, di Tjuna Notarbartolo.

June è una tipica donna del nostro tempo, forte, determinata, sicura di sé, refrattaria alle romanticherie e assai poco incline al sentimentalismo. La fine di una lunga relazione di coppia le ha lasciato in eredità una sorta di anestesia psicologica, tanto da considerare oramai gli uomini con distacco venato da indifferenza. Essi sono diventati una delle tante cose della vita di cui è possibile in un modo o nell’altro, fare a meno, come minimo per la facile disponibilità di succedanei accettabili: un lavoro da giornalista che la assorbe e la appassiona, piuttosto che un’animale da compagnia o la vicinanza delle amiche.
Questa situazione di relativo equilibrio va clamorosamente in pezzi dopo l’arrivo di un SMS da un numero sconosciuto. E’ l’inizio di un incalzante crescendo di tensione che trascinerà la protagonista nelle spire di un travolgente amor fou consumato a distanza tra mille peripezie, sebbene i due protagonisti non si incontrino praticamente mai e lo stesso finale rimanga aperto.
Tutta la vicenda è presentata al lettore dal punto di vista di June ma l’autrice dimostra una non comune maestria riuscendo ad evitare sia la pesantezza che di solito accompagna gli approcci introspettivi, sia la tentazione di lasciarsi prendere la mano dalla ricerca dell’eccitamento fine a se stesso. La storia è dipanata in modo freschissimo e vivace - spesso arricchita da tratti autoironici - e si fa apprezzare per una tensione narrativa attentamente dosata. Il dominio della scrittura è sempre molto saldo e l’autrice riesce a costruire una plausibile atmosfera di aspettativa senza mai rinunciare al senso della misura, nemmeno quando le situazioni narrate si avvicinano all’intimità. Si apprezza inoltre il brusco contrasto tra la concisione lapidaria degli SMS e certi passaggi narrativi più distesi, ad esempio una bella e lunga descrizione di atmosfere napoletane che ha il pregio di non ricadere nei consueti cliché pur mantenendo un gradevole registro lirico.
Il risultato è tanto più meritevole se si pensa come il vero protagonista del romanzo non sia affatto l’amore bensì la più ineffabile e sfuggente delle condizioni. L’assenza. Tango elettrico riconferma quindi un principio di ordine universale che vuole il più intenso sentimento lirico nascere dalla mancanza, alimentato dalla brama verso qualcosa che non si possiede ancora. Tanto più questa meta è lontana, irraggiungibile e sconosciuta, tanto più assume i caratteri dell’assoluto totalizzante.
Dunque una classica situazione di crisi, intesa non tanto come pericolo incombente, bensì come necessità di sperimentare nuove modalità di azione, occasione di mettere alla prova abilità mai sperimentate prima o semplicemente stimolo ad esplorare nuovi territori alla ricerca di soluzioni alternative. Sono le condizioni necessarie per un allargamento di orizzonti o quantomeno i presupposti per riuscire ad integrare le esperienze passate in una nuova e più ampia visione della vita.
Qui però il percorso è diverso. Il desiderio dell’appagamento fa indubbiamente da motore narrativo, ma la protagonista non sperimenta un’evoluzione interiore. June e Fabrizio si ricorrono per tutto il romanzo ma ogni qual volta sono prossimi ad incontrarsi si manifesta un fattore di disturbo, vuoi perché si profila un elemento capace di guastare l’atmosfera, vuoi perché semplicemente non riescono a trovarsi contemporaneamente nello stesso posto.
La psicologia si è a lungo esercitata sulla seduzione degli amori irrealizzabili (un sacerdote piuttosto che una donna sposata o una persona che vive all’altro capo del mondo) evidenziando come tutte queste situazioni pongano sempre un limite perentorio al nascere di una relazione nel senso pieno della parola. Questo limite non è però un ostacolo da rimuovere, bensì l’elemento essenziale del gioco, la condizione che tiene perennemente viva la passione e l’eccitamento. Essi sono alimentati da una tensione incessante verso qualcosa che non si realizzerà mai davvero, e che pertanto viene sottratta al rischio delle brutali smentite che la realtà offre talvolta alle nostre aspirazioni.
In questo senso il romanzo sollecita diverse riflessioni. Ad esempio induce ad interrogarsi sulle sottili bugie che propaliamo a noi stessi quando asseriamo di amare una persona in quanto tale, mentre spesso ci infatuiamo di un’immagine tendenziosa che abbiamo costruito a nostro uso e consumo, quando addirittura non siamo innamorati dell’amore in quanto tale, bramando cioè l’eccitazione e il sentimento come antidoti alla grigia e polverosa uniformità delle nostre esistenze. Forse, ciò che proclamiamo di volere non coincide sempre con ciò di cui abbiamo realmente bisogno.
Non meno interessante il modo vivido con cui viene presentata una delle più amare contraddizioni della vita contemporanea: tanto più sviluppiamo i mezzi adatti a determinare il nostro destino, cerchiamo di avere successo, di sviluppare i nostri talenti, di realizzare aspirazioni o di renderci indipendenti da fattori esterni, tanto più siamo vulnerabili all’alienazione. Non a caso il significato etimologico di autonomia è proprio “norma valida solo per se stessi”. Il prezzo della libertà è normalmente la solitudine.
Non è quindi un caso che il romanzo dedichi così tanto spazio al ruolo della fantasia e dell’immaginazione. Si tratta di potenti attività creative che hanno in sé le risposte ad ogni possibile domanda, l’attitudine a guardare non solo verso un aureo passato ma anche in direzione di tutte le possibilità realizzabili, anche se ancora potenziali. Forze quindi essenzialmente creatrici poiché è impossibile ottenere qualcosa senza prima pensarla come realizzabile. E sarà proprio in quest’ottica, sulla scia di un intellettuale influente come Herbert Marcuse, che la contestazione parlerà di “fantasia al potere”.
La vicenda di June è in questo senso un’esperienza di liberazione. Da una lato la protagonista vive in modo diretto gli aspetti più prosaici della professione giornalistica, un’attività che nel senso comune è spesso vista come sinonimo di vita brillante e poco faticosa (“Pur di non lavorare!”, si dice frequentemente di questo ed altri simili mestieri) ma che invece l’autrice tratteggia in modo assai verosimile, con la competenza di chi vive questa condizione dall’interno. Sono le scadenze incalzanti, l’insopportabile pochezza di certi personaggi, il sentirsi perennemente tirata per la giacchetta oppure l’arroganza boriosa di politici di mezza tacca convinti di poter fare il bello e cattivo tempo solo perché gestiscono un capitolo di spesa.
Dall’altro, l’amore è invece reso come trasporto, emozione travolgente, fuoco divorante della passione senza compromessi o mezze misure, una tensione verso l’assoluto che non ammette né limiti né confini, dando così vita ad un contrasto di luci ed ombre che percorre tutto il romanzo:

“Sapere tutto di te e non sapere niente. Non  ci siamo mai chiamati per nome. La vita che ci si porta addosso è pesante e appesantisce l’amore. Il nostro amore non ha peso perché non ha nome. E’ un amore leggere e voluttuoso, smodato, prodigioso.”

Sono queste le parole di June per rendere l’intensità della sua passione per Fabrizio, ma si noti che a quel punto della vicenda il suo amato bene è poco più che un nome, per altro dai contorni assai nebulosi. Tanto nebulosi che la giornalista cercherà di renderlo meno inafferrabile dando vita ad un fumetto con l’auto di un amico disegnatore, il che ingarbuglierà ancora di più la storia per l’intrecciarsi inestricabile di fantasia e realtà. Perfetta metafora del progressivo sgretolamento di ogni giudizio critico sull’altro che è proprio l’ingradiente più desiderato e temuto di ogni innamoramento che si rispetti.

Cosa c’entra tutto ciò con il tango? Parrebbe nulla. Ma di fronte ad un risultato tanto felice volentieri perdoniamo all’autrice di averci così elegantemente buggerato.

Cos’è piaciuto:

- qualità della scrittura;
- tensione narrativa;
- sottile sensibilità erotica al femminile, arricchita da un’elegante autoironia.

Cosa non è piaciuto:

- Nulla 

Il giudizio in una riga: (ore 16,21 – 320925...) Ciao. Ho scritto una recensione del tuo libro sul mio blog. Ti piace? Chissà se ti ricordi di me. Baci.

La frase da ricordare: “L’amore è assolutamente libero, per essere l’unica massima prigione. Perché è un miracolo a ai miracoli non si chiede la ricevuta di ritorno, non sta bene”.

Scheda completa: Tango elettrico : romanzo / Tjuna Notarbartolo. - Modena : Borelli, 2008 - 191 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-86721-71-4, Euro: 12.75.

domenica 30 settembre 2012

Milonga all'ex bananificio. Udine, 6 ottobre 2012

Segnalo con piacere questa bella iniziativa che testimonia uno dei aspetti allo stesso tempo più originali e diffusi nell’animo tanguero: la volontà di esplorare spazi nuovi e di allestire milongas in ambienti decisamente inconsueti, in questo caso un inedito spazio di archeologia industriale. Tutti i dettagli su www.tanghitudine.it.

 

sabato 29 settembre 2012

L'improbabile storia d'amore della Finlandia per il tango



L’amico Ugo Mattioni mi segnala un interessante articolo sulla versione finlandese del tango pubblicato sul sito della BBC World Service. Fedele al mio interesse per le ibridazioni, le mescolanze, gli incroci e i ‘territori di confine’, ve lo propongo in traduzione. 
La Satumaa di cui si accenna nel testo è un brano di Unto Mononen inciso nel 1955. L'esecuzione classica - che a noi italiani evoca di solito reminiscenze di liscio - è quella di Reijo Taipale. La potete ascoltare nel video in fondo alla pagina.


BBC World Service
L'improbabile storia d'amore della Finlandia per il tango
Di Mark Bosworth 

Il tango ebbe origine nei quartieri proletari di Buenos Aires verso la fine dell'Ottocento, ma è riuscito a conquistare quella che di solito si presenta come una cittadina piuttosto sonnolenta nell'artico finlandese.

Fin dove giunge lo sguardo, coppie danzano il tango lungo strade fiancheggiate da alberi, sotto un cielo blu cobalto. Sono le due del mattino. Il sole è appena sceso sotto l'orizzonte e presto sorgerà di nuovo. Il suono della fisarmonica riempie la calda aria estiva e l'orchestra attacca: prima le percussioni, poi i violini. Il cantante si produce in un pezzo chiamato Satumaa, o terra incantata. Il tango più popolare e più eseguito in Finlandia parla di un'idilliaca terra lontana in cui le persone vivono felici, ma - stando a questo brano malinconico - essa può essere raggiunta solo grazie alla musica.
Questa è Tangokatu, la strada del tango a Seinajoki: una piccola località a tre ore di treno a nord di Helsinki. La strada principale è stata così ribattezzata per il festival, l'evento di maggior rilevo nel calendario finlandese del tango. Il festival, della durata di cinque giorni, viene organizzato da quasi trent'anni e richiama oltre 100.000 finlandesi malati di tango. Ce ne sono di tutti i tipi: uomini in sandali, jeans tagliati e cappelli da cow-boy; una coppia di anziani con le tute in coordinato; donne in stampato di leopardo e vestiti a pois; parecchi indossano abiti in pelle. 
Sono venuto qui per scoprire il perché della passione dei finlandesi per il tango. Dopo tutto, i luoghi comuni li descrivono come riservati e tranquilli, non proprio come i focosi sudamericani. Il tango raggiunse la Finlandia negli anni ‘20 e ‘30 dopo essere stato esportato da Buenos Aires. Ma fu durante i difficili anni della guerra che i finlandesi lo accolsero come proprio. Testi basati sull'amore perduto e sulla tristezza fecero breccia nel cuore di chi aveva visto morire i propri cari nel conflitto. Queste canzoni tristi, suonate quasi sempre in tono minore, si sono fissate da allora nella coscienza nazionale. La versione finlandese è più lenta e semplice: melodie tratte da vecchi valzer finlandesi e russi vengono diffuse ovunque. La fisarmonica sostituisce il bandoneon argentino. Anche la danza è differente. Niente scenografici movimenti di gambe femminili: i finlandesi ballano stretto, i corpi allacciati l'uno all'altro.
All'interno di un affollato e soffocante palasport, i movimenti del tango vengo attentamente valutati in una competizione di danza. Una donna con lunghi capelli biondi, in un abito di velluto rosso arricciato, scivola accanto ad una bruna vestita di giallo intenso che passa morbidamente nella direzione opposta. Una coppia, Sari e Raine Ristola, partecipano alla gara di Seinajoki da dieci anni: le emozioni hanno la stessa intensità della prima volta. Raine non è capace di esprimere a parole ciò che prova e si tira su la manica della camicia scoprendo un braccio con la pelle d'oca. Allora i suoi occhi blu luminoso si accendono all'improvviso: "Quando danzi è come l'amore. Beh, magari un attimo prima. La sensazione" - racconta - "è così intensa". Come Sari e Raine Ristola, la maggior parte di loro sono persone di mezz'età. Ma alcuni giovani possono essere visti mentre danzano gli stessi passi che i loro nonni interpretarono prima di loro. 
Il momento culminante del festival di tango è una gara canora sul genere X-Factor, trasmessa alla televisione dalla cavernosa Seinajoki Arena. Sei concorrenti dai venti ai trent'anni sono arrivati alla finale di oggi grazie al televoto via SMS ma solo uno di essi verrà incoronato re o regina del tango per quest'anno. Si tratta di un grande evento: gli ex re e regine sono diventate celebrità. Persino il presidente finlandese, Sauli Niinisto, si trova qui questa sera.
Un cantante emerge sugli altri cantando la versione tango di una nota canzone pop finlandese. Pekka Mikkola - studente di musica dalla città settentrionale di Oulu – è diventato l'ultimo rampollo dell'unica stirpe reale esistente in Finlandia. "Ho un bel testone", scherza Pekka mentre lotta per infilarsi la corona in capo. Ha tutti i motivi per essere contento: lo aspettano un contratto discografico, una tournee per l'intero paese e la fama istantanea.
A Tangokatu, alle tre del mattino, il sole sta cominciando ad affacciarsi sull'orizzonte. Le future coppie si incontreranno presto per la prima volta e condivideranno il loro primo tango. I piedi tamburellano per terra, gli occhi si chiudono, i corpi si abbandonano alla musica. Mi ritorna in mente quel che Arja Koriseva - già regina del tango a Seinajoki - mi disse poco tempo prima in quello stesso giorno. I suoi genitori si conobbero ballando il tango in una sala di legno, nel profondo della foresta finlandese. I Finlandesi possono essere tranquilli, ma il tango da voce alle loro emozioni. E in una splendida notte come questa ai finlandesi si potrebbe anche perdonare la loro idea di aver finalmente trovato la distante, magica fiabesca terra di Satumaa. 


lunedì 10 settembre 2012

Tango de Amor. Concerto dell'Orquesta tipica Silencio a Udine, giovedì 6 settembre 2012

Lusinghiero successo per il concerto dell’Orquestra tipica Silencio giovedì 6 settembre 2012 nella suggestiva cornice di piazza Matteotti a Udine. Né i Silencio né tantomento l’offerta di musica da tango dal vivo sono elementi di novità nel panorama udinese ma l’evento appena concluso ha avuto senza dubbio caratteri eccezionali.
In primo luogo va sottolineata la straordinaria cornice della piazza, tradizionale spazio di rappresentanza della città, che ha fatto da degno scenario alla manifestazione. Davvero notevole il colpo d’occhio degli edifici circostanti, illuminati da una sorvegliata scenografia di luci, con in più l’inedita vista di molte finestre animate da curiosi e spettatori occasionali. La gratuità dell’evento e la collocazione in un luogo pubblico così centrale ha dato alla serata un carattere di happening festoso, tanto inedito quanto gradevole.
Anche l’afflusso del pubblico è stato decisamente al di là del consueto. Tra milongueros e semplici spettatori non è azzardato immaginare numeri a tre zeri, presenze senza dubbio più da concerto rock che non da tango dal vivo. Tanto semplice quanto ricercato l’indovinatissimo dress code bianco/nero, scelta che ha regalato ai presenti alcuni esempi di raffinata eleganza e di non comune femminilità.
Degna di nota anche l’amplissima superficie effettivamente utilizzabile per il ballo che abbracciava circa metà della vasta platea centrale rialzata. Metratura senza dubbio eccezionale, specie per chi sia abituato a spazi più raccolti, che ha consentito ad un gran numero di coppie di danzare in piena libertà senza mai preoccuparsi dell’affollamento.
Poche le sbavature in un quadro così ben riuscito. La resa sonora avrebbe guadagnato qualcosa con dei decibel in più, ma è facilmente intuibile come l’eco delle recenti polemiche sull’intrattenimento notturno nei centri storici abbia saggiamente consigliato di non strafare; la pista in legno ha mostrato a volte qualche limite ma onestamente va riconosciuto che era impossibile fare di meglio, specie muovendosi in un contesto così delicato.
L’evento è il risultato di una collaborazione tra Arci Zoo di Udine e Bianco e Nero: l'esito è stato senza dubbio di prim’ordine e c’è solo da sperare che una partnership così feconda continui nel tempo. Va riconosciuto ai due organizzatori un eccellente lavoro logistico, non solo per aver superato difficoltà burocratiche certo non indifferenti, ma anche per la volontà di portare a conoscenza del grande pubblico la vitalità e l’entusiasmo della scena locale. Pare proprio che il senso principale dell’evento sia stato proprio testimoniare in modo indiscutibile quanti e quali risultati possano nascere dal fare squadra mettendo in comune capacità, conoscenze, relazioni, amore per il proprio lavoro: elementi di cui mai come oggi si sente la necessità.

domenica 5 agosto 2012

Il tango è (sempre) una storia d'amore... e non una rosa in bocca, di Pier Aldo Vignazia

Non so se anche a voi sia capitata la stessa cosa. Lasciate cadere lì, anche senza enfasi, che siete degli estimatori di jazz. Vedrete le vostre quotazioni sociali aumentare rapidamente, sarete percepiti come raffinati intenditori di cose eleganti, testimoni di una cultura senza tempo che appartiene in senso specifico ad artisti ed intellettuali.
Proclamatevi invece amanti del tango argentino. Specie se maschi, la vostra esternazione sarà probabilmente accolta da qualche sorrisetto obliquo e passerete i successivi minuti a discaricarvi da una giungla di luoghi comuni, intenti a rettificare laboriosamente tutti i possibili stereotipi che sono rimbalzati nella mente del vostro interlocutore. Nella migliore delle ipotesi verrete catalogati come degli eccentrici stravaganti.
Eppure non sono lontanissimi i giorni in cui si descriveva il jazz con sprezzanti connotazioni razziste quali “musica da negri” a tacere di altri tristi cliché. Esso però si è ormai definitivamente emancipato dalle specifiche connotazioni sociali ed etniche delle sue origini, finendo per essere suonato, composto e ascoltato ovunque nel mondo con esiti colti, tendendo anzi ad accreditarsi come la forma peculiare di musica alta che appartiene in senso specifico alla modernità contemporanea.
A prescindere dai diversi esiti, le analogie tra jazz e tango restano tuttavia impressionanti: simile orizzonte cronologico, analoghe ascendenze africane, medesima sintesi di più linguaggi artistici, stessi legami con un originario status di marginalità sociale, analoghe espressioni di nostalgia, malinconia e disagio, stessa enfasi sull’improvvisazione, spiccato virtuosismo strumentale con specifici elementi di rottura rispetto alla tradizione europea. La differenza essenziale, a farla scherzosa, sarebbe solo uno scadente ufficio stampa.
Sono proprio questi i punti di partenza del volume: la rivendicazione per il tango di un posto di primo piano nel panorama delle arti del novecento e il conseguente lavoro di ripulitura per scardinare una sovrastruttura spuria composta da cliché, distorsioni e fraintendimenti.
Per comodità di chi legge, il percorso dell’autore si può dividere in due grandi filoni. Il primo è lo scarto fra l’immagine stereotipata del tango nella cultura popolare e ciò che accade realmente in una milonga. Il secondo è il biasimo per il progressivo allontanamento dal modello tradizionale, in particolare per il formarsi di uno iato sempre crescente tra la pratica del tango in Italia e in Argentina. In entrambe i casi Vignazia dà prova di un’insuperabile conoscenza di prima mano, unita ad una profonda familiarità con la materia e ad un’indiscutibile padronanza di cose sudamericane. Tutti elementi presentati al lettore con consumata abilità dialettica. Per sostenere le sue argomentazioni egli utilizza infatti una forma che è un continuo oscillare tra l’apologia e il pamphlet: dalla prima trae il concetto di difesa appassionata di un bene sentito come prezioso, dunque meritevole della più ampia tutela; dal secondo assume la struttura retorica dell’argomentazione, il linguaggio densamente metaforico, lo spirito polemico di chi, combattendo con vigore la generale acquiescenza, intende presentare i fatti nella piena luce della verità combattendo tutte le interpretazioni difformi. A tal fine sono impiegate anche una cospicua serie di vignette che sfruttano un felice tratto grafico e una mordace verve da disegnatore satirico.


1) Il respiro del pensiero lungo
Mi pare che nel testo circoli un’idea assai bella: il tango non si può comprare. Si possono acquistare dei corsi di tango, libri di tango, calzature da tango, ma l’elemento essenziale è ciò che non si commercia: una particolare inclinazione, una certa attitudine interiore, quell’essere spiritualmente vicini ad uno specifico modo di stare al mondo e di relazionarsi. Quindi la scelta di dedicarsi a qualcosa che richieda una lenta pratica ed un ancor più lungo affinamento personale può essere letto come una forma di amore per una bellezza non destinata ad una fine programmata, opzione tanto più meritoria se si pensa a come la maggior parte delle proposte da cui siamo circondati siano spesso sotto il segno dell’insignificante, del futile, dell’inessenziale oppure inseguano il modello illusorio del tutto e subito. La pratica coscienziosa del tango sarebbe quindi un’opzione non solo possibile bensì addirittura doverosa in quanto riaffermazione di un valore dello spirito nel significato più stretto, la dedizione verso ciò che non si consuma usandolo, che quindi costituisce un bene di civiltà nel senso più alto.
E’ un po’ la stessa risposta che dò io a quanti mi chiedono perché perda tempo a scrivere dei testi così analitici, quando secondo gli standard correnti un commento che superi le cinque righe si considera già troppo e la forma abituale di partecipazione ad un dibattito è scegliere se cliccare “Mi piace” oppure “Non mi piace”. Prendendo a prestito una definizione della politica, credo che tanto io che Vignazia siamo entrambi attratti da forme specifiche di quel che si chiama il respiro del pensiero lungo, l’amore per tutto ciò che è lento a costruirsi ma ha una durata non effimera, che permette di far buon uso dei talenti e quindi contribuisce ad arricchire il presente con forme di esperienza preziose che si deteriorano profondamente o addirittura scompaiono se non le si colloca in una visione più ampia possibile dell'esistenza. Dunque una ricerca di qualità.
Lo spirito pungente dell’autore viene perciò indirizzato ad una salutare opera di ripulitura e di chiarificazione, mostrando un talento non comune nel confezionare espressioni che hanno il mordente degli epigrammi. Sono frasi spesso di fulminante efficacia, capaci di indurre chi legge ad interrogarsi sul valore effettivo della convenzionalità, anche mostrando la fatuità di atteggiamenti che non sono altro che il sedimentarsi progressivo di pratiche e di abitudini consolidate.
Solo in qualche punto il testo pare correre sopra le righe: è pur sempre vero che la frequentazione delle milonghe offre talvolta esempi notevoli di mauvais goût e certo nessuno può negare che Vignazia dimostri un felice talento di osservatore descrivendo la platea maschile come uomini che danzano vestiti da spazzacamino o topi d’appartamento. Lecito invece chiedersi se la donna normale che legge il testo abbia sufficiente autoironia per ridere di sé descritta come “squillo di alto bordo” o “battona”.

2. Fra Italia e Argentina
Praticare il tango, e ancor di più selezionare le scalette musicali delle serate, sarebbe essenzialmente un’opera di gusto che non tollera alcun tipo di sciatteria, dunque un’operazione fondata su saldi criteri di organicità, coerenza interna e armonia. Inclusioni di elementi estranei sono quindi impossibili ed anzi nemmeno pensabili, perché è nella natura delle cose che qualsiasi operazione tendente ad armonizzare elementi allogeni sia destinata all’insuccesso, in quanto puramente velleitaria e generatrice di sterile accozzaglia. Logica e buon senso impongono invece di tenerli nettamente separati, perlomeno come istintiva forma di rifiuto per tutto ciò che è raffazzonato e improvvisato.
Discostarsi da questa regola provoca la stessa forma di repulsione che ci assale alla vista di certe sconvolgenti operazioni urbanistiche, ad esempio quando in un quartiere storico – dunque connotato da un’architettura coerente, frutto dell’applicazione di tecniche edilizie antiche che prevedono l’uso di materiali tradizionali - viene inserita una costruzione di acciaio, realizzata con elementi prefabbricati secondo procedimenti industriali, priva di qualsivoglia nesso formale e funzionale con tutto quello che la circonda e perlopiù con dimensioni talmente sproporzionate da risultare oppressiva su tutto il resto.
Occorre invece procedere all’opposto. Individuare amorevolmente ciò che è organico ad una cultura, trovare delle icone ancora ricche di significati e di valori tradizionali difendendole da ciò che è estraneo, diverso e moderno. Ad esempio - tanto per usare le metafore gastronomiche care all’autore - impegnandosi a tutelare il baccalà e la polenta quali simboli più tradizionali della cultura veneta minacciati dalla gastronomia esotica, dai prodotti d’importazione nonché dalla diffusione dei fast-food.
Semplice e facile. Peccato che la prima descrizione si attanagli perfettamente al caso della Tour Eiffel, che nel sentire comune è invece il simbolo universale della Parigi più autentica, vera e tradizionale; e che soprattutto baccalà e polenta di veneto non abbiano un bel nulla: la prima si fa infatti con il mais, arrivato dall’America, mentre il secondo non è altro che stoccafisso essiccato, il quale si pesca nel mare del Nord e non nella laguna di Chioggia.
Queste due provocazioni mostrano come nel giudicare i fenomeni culturali adoperiamo categorie mentali assai complesse, ad esempio “tradizionale”, “organico”, “classico”, “innovativo”, “vero”, “falso” ecc. senza in genere riflettere sul loro effettivo valore, tanto da restare sorpresi quando scopriamo che il nostro punto di vista è più la sedimentazione di un’abitudine che non qualcosa di ben ragionato.
Il valore specifico di un contenuto culturale può infatti essere descritto con due approcci divergenti: nel sentire comune, su un piano superficiale, lo attribuiamo istintivamente alla capacità di restare se stesso, di opporsi cioè ad ogni tentativo di mescolarsi con altro resistendo all’incorporazione di elementi estranei. Su un piano più profondo, lo si può invece leggere altrettanto bene come attitudine al confronto e all’influenza reciproca, dunque come capacità di generare incessantemente elementi nuovi, diversi e inediti mediante la ricombinazione di quelli già esistenti.
Se istintivamente tendiamo a percorrere quasi sempre la prima strada è perché in genere il pensiero analitico è molto più agevole del pensiero di sintesi. Esistono strutture profonde della mente umana che ci rendono assai ben attrezzati per scoprire differenze, cogliere specificità, individuare discrepanze anche minutissime, ma ce la caviamo assai meno bene a collocare le idee in un più ampio contesto oppure nel riconoscere affinità tra cose che superficialmente paiono distanti o addirittura non avere nulla in comune. Anzi, intere scienze nascono proprio con l’obbiettivo di evidenziare similitudini profonde tra cose e fenomeni che apparentemente sono diversissimi.
Spesso è proprio la distanza dagli eventi a giocarci dei brutti tiri, ad esempio non facendoci percepire l’evidente elemento di rottura di qualcosa che ai nostri occhi è sempre stata lì, mentre troviamo stridente la vista del Beaubourg nel 4ème arrondissement piuttosto che l’odore di felafel nel centro di Padova.
Queste osservazioni segnano quindi il punto dove il mio giudizio diverge. Se sono convinto che Vignazia abbia fatto un’opera meritoria di demistificazione fornendo informazioni corrette ai tanti che si compiacciono di immaginare rose in bocca, casquet ed altro, non mi pare che il resto sia argomentato in modo altrettanto convincente.

3. Senso dell’ordine o amor infiniti?
Immaginiamo un paio di esempi realmente esistenti, ad esempio un rotolo di seta con una sacra famiglia dagli occhi a mandorla, oppure un S. Pietro con il viso prognato e la pelle scura affrescato sulle parete di una chiesa africana. Solo il più retrivo dei fedeli descriverebbe queste scelte come irrispettose o esclamerebbe con fastidio: “Quello non è vero cristianesimo!” Anzi, ogni tentativo di mostrare che quella specifica interpretazione artistica vada respinta poiché in Vaticano, o in qualunque altro posto, quei soggetti vengono trattati alla luce di una diversa sensibilità sarebbe letta come una retrograda forma di sopraffazione nonché una plateale manifestazione di un ottuso e quindi insopportabile colonialismo culturale.
Questo esempio non è che la manifestazione specifica di un modello di portata generale: quando un dato di cultura oltrepassa i limiti del contesto specifico in cui è nato, quando inizia a veicolare significati che possono essere compresi al di là del suo ambiente originario, quando produce esperienze condivise da un gran numero di persone su scala tendenzialmente globale, allora si osservano regolarmente due fenomeni. Essi sono la graduale evoluzione rispetto allo stato di partenza e la progressiva differenziazione in esperienze diverse.
Per mio specifico background culturale ciò non mi sembra una deviazione da riportare sui giusti binari, bensì proprio la cifra che accomuna i più interessante fenomeni culturali della storia e le maggiori idee dell’umanità. Al concetto di divisione di poteri elaborato nella Francia del XVIII secolo corrispondono oggi una pluralità di forme democratiche applicate ovunque; l’idea indifferenziata di jazz si è ramificata oggi in una moltitudine di generi e di sottogeneri; il pensiero di Freud costituisce un nucleo coerente ed organico ma gli analisti rimasti fedeli alla sua eredità sono oggi una piccola minoranza mentre il solo elenco dei vari approcci psicanalitici contemporanei occupa oggi pagine intere; dall’intuizione originale di Siddharta Gautama hanno preso origine molteplici scuole di pensiero e così via.
Esistono, è bene non dimenticarlo, dei modelli espressivi che non si evolvono, si riproducono tendenzialmente uguali a se stessi perpetuandosi immutati, ma sono di norma l’espressione di una comunità umana ristretta che vive in un contesto isolato oppure la manifestazione di un particolare tipo di esperienza religiosa. Due fra tutte: la Schuhplattler, la famosa danza dei boscaioli che è tipica di certe particolari valli alpine e non si ritrova affatto in altre, oppure ad alcune forme di danza sacra, ad esempio quelle di tradizione induista, dove il movimento coreutico è esso stesso una forma di preghiera e di liturgia. Ma entrambe le strade mi sembrano inapplicabili. Credo che ballare il tango sia qualcosa di eccezionalmente più complesso e profondo che non battersi i calzoni di daino con le mani; se poi si comincia ad ammettere che esso rappresenti una teofania o sia interpretabile come una trascendenza allora tanto vale parlare del simbolismo esoterico del codice fiscale o del valore mistico delle rotatorie.
Se il tango facesse eccezione, se cioè esso fosse un fenomeno che aspira ad essere un linguaggio universale, ma capace di riprodursi sempre identico a se stesso grazie ad una sua qualità specifica, esso sarebbe poco meno che un unicum nella storia dell’umanità. Ma leggendo il libro non è chiaro in cosa tale qualità consista: soprattutto la giustificazione di questa eccezionalità richiede spiegazioni molto più persuasive di quante non ne vengano date al lettore.
 La mia sensazione è che dietro una brillante forma dialettica si profili un’aporia: rivendicare per il tango una collocazione fra le “grandi creazioni musicali del 900, insieme con il jazz” ed allo stesso tempo biasimare quegli esiti che ne sono all’incirca la diretta, normale ed inevitabile conseguenza. Un po’come desiderare ardentemente un figlio e – una volta messolo al modo – affliggere il prossimo lamentandosi di aver perso la linea.
Mi pare quindi opportuno un confronto con un altro testo recensito di recente, la monografia di Elisa Guzzo Vaccarino. Se la prima descrive il tango come l’espandersi di una frontiera, un percorso quindi di esplorazione e di scoperta, Vignazia procede invece in direzione opposta e la sua ricognizione si sostanzia nell’apporre segnaletiche, collocare pietre miliari, infiggere picchetti, stendere recinzioni, tracciare confini, alzare barriere. Sono tutte operazioni legittime ed è facile vedere come nel desiderio di conferire ordine e comprensibilità traspaia il sincero e profondo amore dell’autore, l’impegno a presentare il tango in una luce di unicità. L’enunciazione perentoria di una norma, ricorda l’antropologia, serve prima di tutto a riaffermare la sua importanza, più che a impedire una temuta trasgressione.
Ma allo stesso tempo si tratta di scelte delimitano, contengono, bloccano, circoscrivono e indirizzano. Dove Elisa Guzzo Vaccarino descrive il tango come uno slancio di libertà, un’irradiazione inarrestabile verso il futuro, il leitmotiv di Vignazia è l’idea di “tornare a”: tornare al modello sudamericano, tornare alla musica tradizionale, tornare alla prassi consolidata e così via. Un essere ‘contro’ che investe pressoché tutto: le incisioni contemporanee, il tango nuevo, le scalette musicali delle serate, le abitudini individuali, persino l’abbigliamento, fino a perdersi in dettagli che lasciano a volte una sensazione di acribia e di puntigliosità fine se stessi.
Il lettore apprende ad esempio la differenza tra le milonghe di Buenos Aires - frequentate solo e soltanto per amore disinteressato del ballo - e quelle di casa nostra, dove invece vengono vissuti anche gli aspetti della socialità in tutte le loro possibili declinazioni. Confesso che questa puntualizzazione mi sembra inutilmente crudele: il mondo moderno produce una grande quantità di spazzatura emotiva sotto forma di solitudini feroci, alienazioni brutali o velenose angosce esistenziali. Se la pratica del tango offre la possibilità di sperimentare nuove e feconde relazioni nel mondo reale, ingentilisce la vita e rende meno intollerabile l’esistenza ciò andrebbe salutato come una benedizione, non come un fraintendimento da correggere. Detta altrimenti, mi pare semplicemente uno dei tanti casi in cui si è verificata una graduale emersione di benefici non compresi nell’idea originale, la stessa forma di realismo pragmatico che ci induce a non rifiutare i vantaggi della cardioaspirina solo perché era stata originariamente messa in commercio come analgesico.
Non meno radicale è la negazione, a priori, di un qualsivoglia valore estetico alla pratica di danzare su sonorità contemporanee, idea che viene esposta in forme talmente rigide e perentorie e tassative da evocare quasi l’idea di un’impurità. Comunque la si pensi sull’argomento, mi pare un argomentazione non molto solida, tanto che basta riformularla a rovescio per mostrarne la sua assai relativa solidità: ballare su un incisione originale, poniamo, di Canaro è forse garanzia automatica di un risultato artisticamente valido, o almeno condizione necessaria ma non sufficiente? Se così fosse  basterebbe verseggiare nel latino aulico di Catullo per essere veri poeti, o preparare i colori secondo le ricette del XVI secolo per rivaleggiare con i maestri del rinascimento, mentre è ormai nozione diffusa che il valore di un opera stia essenzialmente nella freschezza e nell’autenticità dell’atto creativo, in quanto cioè vi abbia trasfuso l’artefice.
 Siamo dunque arrivati ad uno snodo che si può formulare in questi termini: esiste un nesso fra cosa si fa e come lo si fa? Detto altrimenti, nelle opere umane è lecito separare la forma dalla sostanza?
Per Vignazia si tratta di un punto chiave della sua assiomatica, un’idea che non si dimostra ma serve per verificare la validità di altre idee: la pratica del tango è solo quella tradizionale, con la sua complessa struttura di elementi formali, altrimenti si produce qualcosa che va sotto altro nome, da cui peraltro occorre stare giudiziosamente alla larga. Il tango va quindi incondizionatamente accettato in blocco così com’è, senza riserve, oppure meglio indirizzarsi verso altre forme espressive. Lo si accoglie e lo si pratica esattamente come ci è stato consegnato dalla storia, ovvero un fenomeno artistico ormai inseparabile da un complesso apparato di codici, di usi, di tradizioni e di modelli che ne sostanziano l’identità.
La posizione possiede una sua indubbia fondatezza anche se osservata in modo smaliziato ha qualcosa dei Lefevriani: la vera celebrazione eucaristica può essere solo quella di rito tridentino (dunque in latino, con l’officiante rivolto all’altare ecc.) diversamente non si può parlare di messa mancando degli elementi irrinunciabili. Per altro, piace notare come la società contemporanea sia stata arricchita dall’opera preziosa di donne magistrato solo dopo che il contenuto del giudicare è stato finalmente disgiunto dalla forma della professione maschile; è confortante sapere che possiamo trasmettere un contenuto amoroso senza essere vincolati alla forma del sonetto, che pure è stato per secoli il metro indiscusso della lirica sentimentale; infine tutti noi contribuiamo ad un avanzamento di civiltà quando pensiamo al contenuto reale dell’espressione ‘diritti’ astraendo dalla loro forma, ovvero dallo status della persone cui essi di volta in volta fanno capo. Tutto ciò fa almeno intuire come la questione non sia affatto semplice come talvolta la si presenta: di fatto costituisce invece il punto essenziale di numerose teorie sociologiche, estetiche e filosofiche.
Spesso tendiamo a dimenticare una cosa. I fenomeni culturali ‘vincenti’ sono indubbiamente quelli che oltrepassano il loro contesto originario e si universalizzano, come si ricordava sopra, ma soprattutto quelli in cui si verifica uno sganciamento tra forma e sostanza. Mi sembra che lo stesso jazz invocato dall’autore come meta ideale cui tendere sia un esempio molto calzante. Non solo buona parte delle esperienze contemporanee hanno pochi o nessun riferimento allo specifico contesto originale, ma se oggi qualcuno affermasse che soltanto gli afroamericani nati negli stati del sud possono fare il vero jazz, insegnare agli altri cosa esso sia o non sia, oppure determinarne in qualche modo l’evoluzione, egli verrebbe guardato con educato scetticismo poiché esiste una schiera di musicisti di altre e diverse origini che hanno prodotto risultati di prim’ordine.

Sia chiaro. La qualità delle notizie e delle informazioni che Vignazia propone al lettore sono incontestabili: la sua esperienza di prima mano, la conoscenza enciclopedica, la lunghissima frequentazione di ambienti e di persone dall’una e dall’altra sponda dell’oceano sono dalla sua parte. Ponendosi nella prospettiva del praticante per diletto, rimane invece la sensazione che questo corposo repertorio di differenze tra Italia e Argentina finisca per mettere sul tappeto più problemi di quanti non ne risolva. Se da un lato risulta utilissimo per sollevare lo sguardo oltre il cerchio chiuso della propria esperienza, collocando cioè il proprio agire in un contesto più ampio, non è per altro semplice comprendere dove termini la coscienziosa esplorazione di un altro e diverso orizzonte di civiltà e dove invece inizi la confortante ripetizione di un rituale. Né il testo illumina su come distinguere un semplice costume introiettato per imitazione dalla cosciente e volontaria perpetuazione di un retaggio, inteso come specifico valore di cultura basato su codici non scritti e regole informali.
In tal senso il libro pare assai distante dalla sottile finezza interpretativa e dal sereno equilibrio che caratterizzano così bene Haim Burstin. Nel procedere di Vignazia non si coglie né la volontà di conciliare posizioni diverse in una visione che le trascenda entrambe, né l’impulso a  riconoscere elementi di fondatezza anche in punti di vista diversi dal proprio, né tantomeno una posizione dubitativa o la manifestazione di un’incertezza. La struttura argomentativa è semmai condotta da una posizione arroccata, ben protetta dalle roccaforti della tradizione, dell’esperienza diretta e dell’autorità.
Questo procedere apodittico e perentorio lascia al lettore una sensazione curiosa: il concetto di lealtà indefettibile ad un nucleo di idee sentito come non negoziabile, l’enfasi e su comportamenti e ruoli codificati, la necessità di un lavoro di indagine che è indubbiamente approfondimento ma che rivendica allo stesso tempo una funzione normativa ed interpretativa alla ricerca di una pratica ‘corretta’ sono altrettanti elementi che raramente appartengono alla creatività e allo svago. In genere si ritrovano nella militanza politica attiva, in certe passioni sportive collettive e più specificatamente nell’esperienza di fede tanto che nel loro insieme paiono indirizzare verso un’inedita forma di religione laica. Una metafora vagamente sinistra descrive anzi la pratica distorta del tango utilizzando categorie concettuali che risultano piuttosto lontane dai modelli della critica artistica o dalla letteratura sulle attività ricreative: blasfema parodia dei riti sacri in un luogo di culto.

3. Milonguero ludens
L’impressione di massima è che tutti i fenomeni lamentati da Vignazia non siano esclusivi del tango ma che appartengano alla condizione umana nel senso più vasto, quindi convenga semmai interpretarli da un punto di vista più generale possibile.
In qualsiasi esperienza si può riconoscere l’eterna oscillazione fra nostalgia e irrequietezza, ovvero tra la tensione verso un altrove sentito come perfetto, rispetto al quale ogni possibile realtà non può essere che uno scadimento, o l’ansia di nuovi mondi futuri, che possono essere esplorati solo mettendo in discussione una parte più o meno cospicua del presente. Ognuno è chiamato prima o poi a scegliere tra la rassicurante ripetizione di ciò che già conosce, in uno spazio comprensibile che non ammette zone bianche, e la spinta verso ciò che si trova oltre i confini che sono stati tracciati da altri.
Seguire a testa bassa l’una o l’altra via porta in entrambi i casi dei rischi. La costante riproposizione degli stessi contenuti nelle medesime forme rischia di incagliarsi in uno stanco manierismo, ed anzi spinge proprio verso la duplicazione dei più truci luoghi comuni perché sono quelli più facilmente comprensibili e comunicabili. All’opposto, se si ammette a priori che tutto è in relazione con tutto, si perdono di vista i tratti peculiari dei singoli elementi costitutivi ed il risultato tende a dissolversi in una costruzione informe.
Sia ben chiaro. Nel recupero del passato non trovo nulla di pregiudizievole. Anzi, esistono un’ infinità di pratiche, di esperienze, di opzioni che appaiono interessanti e degne di attenzione proprio perché inattuali e quindi capaci di arricchire la nostra esperienza aggiungendovi un continuo e fecondo dialogo fra passato e presente. Non ho nessuna difficoltà a collocare il tango fra di esse ed a trovarlo gradevole anche per questo specifico aspetto. Mi pare tuttavia – e questo è il nucleo della mia argomentazione - che nelle esperienze creative questo tipo di recupero debba riguardare prima di tutto le emozioni, in quanto espressione universale dello spirito umano, e solo in seconda istanza le forme, che sono invece il portato di un contesto specifico, esattamente collocato nello spazio e nel tempo. E’ per questo che la tautologica esclamazione “mica siamo argentini!” sembra contenere non solo una bonaria saggezza ma anche un’inconsapevole profondità, mentre la vigorosa confutazione che ne offre Vignazia in tutto l’arco del libro si smarrisce in questioni che talvolta paiono secondarie: in che modo la gioia sperimentata in prima persona da chi danza viene arricchita dall’apprendere che sulle rive del Rio della Plata ci si cambia le scarpe con criteri diversi dai nostri?
A volte infatti tutti noi perdiamo di vista le cose più evidenti: frequentiamo le milonghe da dilettanti. Il che non va inteso nel senso deteriore di “inferiori a qualcun altro”, sia esso un oriundo sudamericano, un insegnante di talento o una qualsiasi persona che possa vantare più anni di pratica, più solida autorità o più consumata esperienza. Occorre invece considerare dilettanti nel significato etimologico di esseri umani che si dedicano a qualcosa per il solo scopo di trarne piacere, un’esperienza quindi che trova dunque piena e totale legittimazione in se stessa, senza necessità di appoggiarsi a nessun altro sistema preordinato o ad una qualsiasi architettura normativa. Si tratta, per dirla con Pennac, di un’attività che non tollera l’imperativo.
Postulare l’opposto è ammettere che una persona possa trarre gioia solo da ciò che altri hanno stabilito a priori, in nome di teorici percorsi culturali (Ma quali? Scelti da chi? Sulla base di quale criterio?) che di solito coprono solo un’estensione assai piccola rispetto alle multiformi espressioni dell’esistenza. L’idea di dover regolare qualcosa che può esistere soltanto se libera parrebbe una laboriosa contorsione mentale.
Le scienze pure hanno criteri di validazione interni. Le scienze a statuto debole ed in genere tutti gli studi applicati presuppongono un metodo condiviso o si presentano come dei saperi più o meno formali. Restano le metafisiche, di cui non ci occupiamo, e le verità rivelate, che spettano ai ministri del culto. Ciò che rimane sono tutte infinite espressioni dello spirito umano, forze creatrici che sono tanto libere nei mezzi quanto libere nei fini. L’arte, l’inventiva, il gioco, per loro stessa natura, sono svincolati da ogni forma di legittimazione che non sia l’appagamento e la gioia che da essi traggono quanti vi si dedicano. Si tratta di qualcosa che ha in sé una preziosa scintilla di infinito, la libertà di esplorare, di gioire spiritualmente in nome della creatività. Non a caso tutta la letteratura sul tango insiste sul fatto che uno degli elementi di superiorità rispetto alle altre danze d’abbraccio è proprio quello di offrire al praticante dei margini di creatività e di improvvisazione altrove nemmeno concepibili.
Detta altrimenti, qualsiasi esperienza, prassi, idea o modello che allarga le nostre possibilità e permette di abbracciare una più vasta gamma di opzioni mi pare migliore di qualsiasi altra cosa che le restringa o le delimiti. Mi sembra cioè che ogni piccolo o grande avanzamento sia avvenuto ampliando, dilatando o allargando e che invece i tentativi di restringere, incanalare e guidare non siano stati altrettanto fecondi. L’evoluzione e la crescita si sono storicamente costruiti sull’abbondanza: sul numero di scelte e sulla ricchezza di possibilità che vengono rimesse al discernimento individuale, sulla possibilità di intersecarle e di combinarle in modo nuovo. Qualunque strada che contrae il settore della necessità – in cui si trova quello che altri hanno deciso si possa o non si possa sperimentare - estende automaticamente la sfera della libertà, cioè il campo in cui si sviluppano quelle attività autonome, collettive o individuali, che trovano fine in se stesse e piena legittimazione nel piacere che se ne trae.
Ed è proprio su questo aspetto che il volume pare aggrovigliarsi in percorsi inutilmente tortuosi. Viene celebrato il carattere ribelle del tango, danza refrattaria alle regole ed alle imposizioni, ma tutto il libro ha in filigrana la necessità di indirizzare i praticanti verso una prassi ‘corretta’ – il che fa intravedere la nozione di accademico - e questo richiamo pare tanto insistito da scorgere quasi un certo dirigismo. Si ricorda con compiacimento il meticciato culturale in cui esso affonda le radici, ma l’attuale incorporazione di elementi nuovi e diversi è accolta con insofferenza e fastidio.

Che il tango - direbbe Ligabue - condivida il destino di tante cose umane, quello di nascere incendiari e morire da pompieri?

Cosa è piaciuto:
  • Schietto carattere satirico nel tratteggiare definizioni taglienti e azzeccate
  • Impareggiabile sintesi di competenza ed esperienza diretta
Cosa non è piaciuto:
  • Interpretazione di fenomeni culturali con modelli a volte riduttivi, letti da un’angolazione troppo ristretta
  • Percorso eccessivamente sbilanciato sul lato della normazione

Giudizio in una riga: Un filo d’Arianna per districarsi nei labirinti del tango. Ma esiste poi l’uscita?

La frase da ricordare: “Il risultato [del tango elettronico] è un allegra e caotica sarabanda, dove i fedeli si prendono gaiamente a calci in qua e in là mentre il musicalizador mette nel lettore quel che gli passa per la mente seguendo imperscrutabili disfunzioni della sua chimica neuronale”.

Scheda: Il tango è (sempre) una storia d'amore... e non una rosa in bocca : (come conoscerlo meglio e vivere un po' più felici) / Pier Aldo Vignazia ; disegni dell'autore ; prefazione di Sergio Staino - 2. ed - Lecce : Sigillo, [2008] - 200 p. : ill. ; 22 cm. - ISBN 978-88-89990-11-7 Euro 15,00


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lunedì 30 luglio 2012

Il tango, di Elisa Guzzo Vaccarino

Della prima volta che ebbi la sventura di rivedermi in video ricordo sostanzialmente due cose: la malinconica constatazione di come l’immagine dei miei talenti si fosse dimostrata lontanissima dalle mie effettive capacità, e, soprattutto, un’imprevista esitazione nell’etichettare il CD a cui avevo affidato memoria delle mie incaute prove. Avrei dovuto scrivere prima il mio nome e poi quello della mia partner, oppure sarebbe stato meglio fare l’opposto? Mi venne spontanea la prima soluzione, sul modello di qualche locandina, ma da ultimo decisi per la seconda, come minimo per dimostrare una qualche forma di riconoscenza gentile verso chi si era dimostrata così disponibile ad aiutarmi.
La ragione di quell’esitazione mi fu chiara molto tempo, nel pieno della lettura de Il tango, di Elisa Guzzo Vaccarino, critica della danza e ballerina essa stessa di tango. L’uso di anteporre il nome della donna - spiega l’autrice - è infatti un’usanza europea che affonda le sue radici nel balletto di tradizione classica ed è pertanto ispirata da una concezione romantica e cavalleresca della coppia che danza. La convenzione inversa è invece coerente con le asimmetrie di genere che sono proprie della pareja di tango ed inoltre testimonia l’influsso di specifici modelli culturali propri dei paesi latini.
Questo piccolo ma significativo esempio basta già a collocare il lavoro di Elisa Guzzo Vaccarino in una prospettiva ben specifica: il tango-danza, perché è di questo che essenzialmente si parla, viene presentato al lettore servendosi di quelle categorie concettuali e di quei modelli di riferimento che sono propri degli studi coreutici di livello accademico. Si tratta quindi di un programmatico allargamento di orizzonti, tanto che fin dall’introduzione l’autrice parla esplicitamente di “universo tango”. Metafora senza dubbio felice per testimoniare non solo la vastità dell’argomento, ma soprattutto l’idea di una complessità irriducibile e di una multiforme varietà, in cui per altro sono ovviamente riconoscibili dei tratti comuni e delle linee evolutive.
La stessa definizione non viene data, come si fa di consueto, con criteri esclusivi (non è la rosa in bocca, non è l’abbraccio aperto, non è la musica che non sia tradizionale, non è quel che si fa in questo o quel contesto ...) bensì emerge per criteri inclusivi, seguendo un fecondo approccio di sintesi che guida il lettore a riconoscere elementi di affinità fra fenomeni apparentemente diversi, prendendo in considerazione un gran numero di fatti alla ricerca di elementi ricorrenti, suggerendo connessioni insospettate fra settori lontani. Dunque una scelta che colloca sempre gli elementi del discorso sullo sfondo di un più ampio contesto, secondo il modello della migliore letteratura artistica.
Non a caso, il testo non si limita alla consueta focalizzazione sul contesto rioplatense, ma accompagna il lettore in un giro di riferimenti che abbracciano l’Africa, il Sudamerica, l’Europa – Parigi in particolar modo – e gli stessi Stati Uniti. L’autrice è infatti culturalmente ben attrezzata per spaziare a diverse latitudini geografiche e soprattutto culturali, guidando il lettore lungo un percorso che si propone soprattutto di educare nel senso etimologico di ex-ducere, ovvero portare altrove, guidare all’esterno, allargare gli orizzonti, far percepire l’estensione di quanto si estende al di là del cerchio ristretto della propria personale esperienza.
Nel testo si respira infatti una fresca atmosfera di aria nuova, in primo luogo per ciò che le pagine non contengono. Non vi si ritrova infatti quel certo spirito di consorteria, né il pugnace arroccamento a difesa di una posizione né tantomeno la tentazione di accreditarsi come la custode dell’interpretazione autentica.
Traspare semmai una feconda curiosità intellettuale e una programmatica libertà di esplorazione che sfrutta di volta in volta gli strumenti più adatti, sempre attenta a collocare il tango sullo sfondo di altri e più complessi fenomeni. È il caso ad esempio dei cosiddetti gender studies, ovvero l’insieme di quegli approcci interdisciplinari che utilizzano le differenze tra i sessi come modello per comprendere diversi aspetti della vita umana e della produzione artistica, svelando così aspetti inediti della complessa trama dei rapporti fra individuo e società e cultura. Non solo quindi la legittima denuncia degli aspetti più sgradevolmente sessisti, bensì l’applicazione di un modello di riferimento sorprendentemente fecondo ad un contesto dove le asimmetrie di genere paiono più evidenti che altrove.

Non meno interessanti le connessioni insospettabili come  ad esempio il ruolo di una personalità della cultura italiana del primo ‘900 quale Filippo Tommaso Marinetti, autore di una Lettera futurista circolare ad alcune amiche cosmopolite che danno dei the- tango e si parsifalizzano (11 gennaio 1914). Marinetti bolla il tango con una serie di metafore come “lenti e pazienti funerali del sesso morto” o “valzer masturbato”, finendo per celebrare “la brutalità di una possessione violenta e la bella furia di una danza muscolare esaltante e fortificante”, un’espressione che ricorda la celebre definizione di “guerra sola igiene del mondo”. Parsifal è il prototipo della purezza incorrotta, l’unico fra cavalieri della tavola rotonda che ha il privilegio della visione beatificante del Graal, ma qui rappresenta il simbolo di chi ha sostituito il vigore ruspante di una sana copula alle mollezze intellettualistiche della sua mera rappresentazione. E’ un testo dove aleggia una palpabile atmosfera di superomismo, i cui echi wagneriani rimandano a parentele insospettabili quali Wolfram von Eschenbach, Chrétien de Troyes e con essi una parte della letteratura medievale. “Universo tango”, appunto.
La salda padronanza della ricerca è inoltre evidente da molteplici indizi, uno per tutti la presunta connessione fra Pio X ed il tango, logora vulgata della pubblicistica italiana. Apprezzabile scoprire la precisione dei riferimenti con cui l’autrice riporta tutta la questione alla sua esatta misura grazie al puntuale rimando a documenti di prima mano, sempre sulla falsa riga di quei riconosciuti fondamenti del metodo storico che sono la critica delle fonti e la verificabilità delle informazioni.

La parte centrale del testo, la più corposa, può indubbiamente essere letta come una ricchissima antologia di produzioni, tournee o spettacoli, ma testimonia soprattutto la varietà di connessioni, incroci, scambi, ibridazioni e contaminazioni che hanno arricchito negli anni il solco principale della tradizione. Ne sono un esempio i tanti rimandi alla scena contemporanea, dal Tanztheater alla Contact improvisation, oppure i riferimenti ai coreografi che hanno incorporato elementi di tango nelle loro opere, su tutti Frederick Ashton e Pina Bausch.
Dunque una prospettiva diacronica, evolutiva e dinamica che in qualche modo ribalta i modelli più tradizionali della letteratura sul tango, spesso giocata sulla contrapposizione vagamente dogmatica fra la celebrazione di un passato irripetibile ed il biasimo per gli esiti della contemporaneità, descritti - quando va bene - come un fraintendimento da correggere. Volendo trovare una pregnante metafora, direi che l’autrice non presenta il tango-danza come un fiume che si impaluda in mille rivoli sterili man mano si allontana dalla pura sorgente originaria, ma come il propagarsi di tanti rami distinti che con diversa vitalità e vari esiti originano da parti diverse della medesima pianta.
La stessa analisi di tutti quegli elementi che pongono il tango su un piano diverso rispetto alle altre forme di danza viene sviluppata in modo limpido e sereno, senza ombra di partigianeria, ma anzi con una lucidità e una chiarezza intellettuale che non nascondono al lettore le antinomie più spinose: aspira ad essere linguaggio universale, ma è inestricabilmente connesso ad un preciso ambiente, esattamente collocato nello spazio e nel tempo; enfatizza la libertà e l’improvvisazione ma è impossibile non confrontarsi in un modo o nell’altro con quanto ci è stato consegnato dal passato e così via.
La sezione fonti è composta da interviste ai protagonisti, efficacemente distinti in: Gli assi della rinascita; I maestri analisti; I nuovi; Le donne esploratrici; La tradizione negrera oggi; Le coppie; Cambalache; il Festival del tango fusion. Essi sono presentanti in modo paritario, senza indicare a chi legge una gerarchia di autorità o sovrapporvi una griglia interpretativa personale. L'idea di fondo che ispira questa parte del lavoro è infatti la presa d'atto di come il tango sia ormai un fenomeno sostanzialmente plurale. Dunque il percorso non va compiuto in senso discendente, individuando cioè delle auctoritates e valutando tutto il resto di conseguenza, bensì correttamento tracciato dal basso verso l’alto, mettendo a confronto posizioni diverse alla ricerca di un minimo comun denominatore di elementi condivisi, seguendo la metodologia delle scienze umane. 
Un elemento di rilevo è la qualità della scrittura nonché la chiarezza dell’esposizione, altrettanti fattori che rendono il libro perfettamente godibile senza inutili appesantimenti pur conservando il saldo dominio del discorso e soprattutto quel rigore argomentativo che è giusto aspettarsi da un testo di alto livello. Si tratta di una notazione non scontata, se solo si pensa alla facilità con cui il linguaggio della critica d’arte tenda a librarsi nelle regioni dell’ineffabile o a smarrire la via entro i labirinti di un discorso puramente autoreferenziale.


Cosa è piaciuto
  • Elegante applicazione al tango dei metodi e dei modelli propri della storia della danza in senso accademico;
  • Finezza interpretativa e padronanza del metodo;
  • Approfondita contestualizzazione dei problemi, con precisi richiami ad altri e più vasti orizzonti culturali.
Cosa non è piaciuto
  • Nulla

Giudizio in una riga: Il pregevole risultato di una visione di sintesi sorretto da una feconda curiosità intellettuale e da una programmatica libertà di esplorazione al di là dei luoghi comuni.

La frase da ricordare: "Er Papa nun vo’ er Tango perchè, spesso, / er cavajere spigne e se strufina / sopra la panza de la ballerina / che su per giù, se regola lo stesso [...] "

Scheda: Il tango / Elisa Guzzo Vaccarino - Palermo : L'epos, 2010 - 366 p., [12] carte di tav. : ill. ; 21 cm. -
ISBN 978-88-8302-413-9, Euro 28,50

sabato 14 luglio 2012

Tango. Tra arte e passione

Segnalo con piacere la bella iniziativa dell’amica pittrice Ennia Visentin che il 14 luglio 2012, alle 19.30, presso il Marina punta faro di Lignano Sabbiadoro (UD), presenta la personale: Tango. Tra arte e passione. A seguire ballo sotto le stelle con le selezioni musicali di Paolo Ceglie.



Loc. Isola Punta Faro, 1 
33054 Lignano Sabbiadoro (UD)


martedì 3 luglio 2012

Omaggio a Pier Aldo Vignazia

Il tango è una storia d'amore... e non una rosa in bocca è un fortunato libro di Pier Aldo Vignazia, un'opera apprezzata anche per le caustiche ed originali definizioni.

Una delle immagini più felici è la descrizione della milonga quale ambiente popolato da donne vestite in modo vistoso che danzano in compagnia di uomini in tenuta da spazzacamino.

Nella foto, una tipica milonga londinese:


martedì 12 giugno 2012

Di tango in tango. La giovane Udine tanghera (Milonga alla Loggia del Lionello, giugno-agosto 2012)

Mercoledì 6 giugno 2012, nell’eccezionale cornice della loggia del Lionello a Udine, si è svolto il primo appuntamento della serie Di tango in tango. La giovane Udine tanghera, un programma di otto milonghe organizzate nei mesi di giugno-agosto. La serata si è distinta per la felice scelta di uno spazio di grande pregio con un fascino indiscutibile, in cui si riconoscono per altro due elementi non comuni:

Il primo è l’inedita organizzazione curata dalla Piubello Invest, un’impresa attiva nell’organizzazione di eventi, noleggio di strutture e marketing sportivo. Si tratta di un percepibile fattore di novità nella scena udinese, dove spesso le iniziative si fondano sul terreno dell’associazionismo o si basano sulla collaborazione informale tra appassionati. Va dato merito agli organizzatori di aver ben lavorato: un lungo elenco di sponsor testimonia l’interesse che questa iniziativa è riuscita a catalizzare, mentre la presenza di personale di sala destinato esclusivamente al buffet compreso nel prezzo è un dettaglio che si incontra non di frequente.
Secondo aspetto rilevante è l’inserimento di una milonga in una più vasta offerta di attività culturali e ricreative sotto la regia del Comune, che l’ha collocata tra gli eventi nel programma Udinestate 2012. Brevi interventi delle autorità hanno inoltre rimarcato come l’evento rappresenti un felice modello di collaborazione fra pubblico e privato.

L’aspetto più interessante della serata è stato quindi vedere una milonga organizzata con le prassi tipiche di altre categorie di eventi: dunque il coinvolgimento di numerosi sponsor, le strette relazioni con gli enti pubblici, l’enfasi sulla comunicazione e sulla visibilità. Il tutto è ancora più evidente se si pensa come molte delle iniziative nate nell’ambito del tango tendano a svilupparsi e prosperare in circuiti molto ristretti facendo anzi dell’esclusività un elemento ricorrente, spesso sottolineato.

Non comune la fascia dalle 20.00 alle 23.00, specie quando la stagione estiva  invogli a posticipare l’uscita serale. L’ora di chiusura pare tuttavia realistica vista la collocazione infrasettimanale, mentre non vanno dimenticati i vincoli imposti dall’uso di uno spazio aperto in pieno centro cittadino. Generosa in ogni caso la partecipazione del pubblico che ha dimostrato di gradire particolarmente la serata. Senza pecche la selezione musicale, affidata al collaudatissimo Alessandro Simonetto che ha creato le atmosfere musicali per le quali viene legittimamente apprezzato.

lunedì 14 maggio 2012

Tango mandala



Omaggio al Dalai Lama in occasione della visita ad Udine del 22 e 23 maggio 2012.

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