martedì 21 febbraio 2012

Psicotangoterapia. Danzare nell'abbraccio per cambiare, di Edoardo Giusti e Veronica Marsiglia

Per taluni la pratica sociale del tango è un’esperienza straordinariamente appagante. Molti affermano di averne tratto consistenti benefici in termini di benessere, migliore comprensione di sé, sviluppo personale, e tutto questo a tacere di altri aspetti sicuramente apprezzabili come quelli motori e ricreativi.
Perché quindi il tango piace così tanto? Cosa lo distingue dalle altre danze? Perché è in grado di suscitare emozioni così forti in chi lo pratica? E possibile utilizzarlo come uno specifico approccio terapeutico?
Sono queste le questioni da cui Giusti e Marsiglia sono partiti per approdare a Psicotangoterapia. Si tratta di un articolato percorso fra teoria psicanalitica e pratica clinica che si conclude con la descrizione del particolare approccio terapeutico sottointeso dal titolo, percorso a cui è anche dedicato un blog tematico che aggiorna su novità e appuntamenti (http://psicotangoterapia.blogspot.com/)
Già un semplice sguardo alle informazioni editoriali rende subito evidente la particolare collocazione del volume. Si tratta di una monografia specialistica nel settore della psicologia applicata, pubblicata in una collana dedicata ai professionisti della relazione d’aiuto. Il modello di riferimento è la cosiddetta psicologia della Gestalt, intraducibile germanismo che si può rendere all’ingrosso come forma, conformazione, struttura. Essa sottolinea come le esperienze umane non siano mai scomponibili in costituenti elementari, bensì il risultato di una complessa organizzazione unitaria, una Gestalt appunto. Gli stimoli provenienti dall’ambiente vengono organizzati in modo da produrre significati ben strutturati, completi e dotati di senso così da costruire un tutto che è sempre maggiore della somma dei suoi elementi costitutivi. Si tratta, in prima approssimazione, di un olismo metodologico, in particolare per l’assunto di considerare individuo e ambiente come parti inseparabili di un unico sistema, come pure per il rifiuto di qualsiasi delimitazione artificiosa fra la sfera fisica, psicologica, intellettuale, emotiva, relazionale e spirituale, così da considerare invece l’intera esperienza di vita di una persona nella sua totalità.
L’applicazione di questo modello al tango è stata senza dubbio feconda. In senso generale viene proposta un’esplorazione dei benefici che appartengono alla pratica della danza, in senso specifico è offerta una fine analisi di quegli aspetti terapeutici che gli autori accreditano al tango in quanto tale, non essendo immediato ritrovarli in altre forme espressive. Una specifica sezione del libro è dedicata ai risultati di sperimentazioni sul campo e di applicazioni mediche in senso stretto, ovvero l’uso del tango come terapia di sostegno alle forme più potentemente invalidanti di malattia.

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Di tangoterapia – va detto - si parla già da tempo. Il lavoro principale dello psichiatra argentino Federico Trossero è stato tradotto in italiano nel 2008, lo stesso anno delle esperienze cui hanno collaborato Monica Gallarate e Giorgio Proserpio, e tutto questo a tacere di un molteplicità di appuntamenti di cui i media hanno dato notizia di tanto in tanto. La proposta di Giusti e Marsiglia si presenta quindi, in modo corretto, come rielaborazione, sistemazione e sviluppo di contributi già esistenti e va senza dubbio dato merito ai due autori di aver trovato un eccellente equilibrio fra il rigore scientifico e la chiarezza espositiva.
La comprensione approfondita del testo richiede qualche elemento di psicologia, ad esempio la dualità jungiana animus/anima, mentre quando gli autori sottolineano la possibilità di rassicurare la bambina della tanguera, il riferimento non è alla pargoletta affidata alle cure di una volonterosa babysitter mentre la madre è a milonga, bensì al modello teorico dell’analisi transazionale teorizzato negli anni 50 dal canadese Eric Berne.
La lettura dell’opera rimane comunque scorrevole senza essere gravata da eccessivi appesantimenti. Tutte le argomentazioni appaiono persuasive e soprattutto ribattono anticipatamente ad una delle più comuni obiezioni che nascono da un proliferare a volte fantasioso di proposte, siano esse fondate su un’attività, sulla relazione con un essere vivente, come pure sulle proprietà vere o presunte di un oggetto fisico. Al giorno d’oggi non è difficile provare la sensazione che il suffisso –therapy tenda a diventare un etichetta di comodo da applicare più o meno a qualsiasi cosa, spesso con logiche opinabili. Se tutto cura, allora nulla cura.
L'esposizione è invece presentata in forma rigorosa, con richiami ai modelli che sono propri delle scienze cui si aggiungono i risultati del lavoro sul campo o la discussione di trial clinici. Il testo si inserisce in uno specifico filone interpretativo che vede la milonga non tanto come semplice contenitore per le attività ricreative di un gruppo, bensì come una microsocietà regolata da norme relazionali proprie: il modello utilizzato fra gli altri da Haim Burstin, non a caso citato più volte nel corso del saggio. Visione che enfatizza gli aspetti comunicativi e relazionali, arricchita dalla specifica visione gestaltica che conduce ad esiti di grande suggestione. Se l’approccio tradizionale si era focalizzato sulla coppia di ballerini, Giusti e Marsiglia seguono un modello a tre: l’uomo e la donna che danzano più il terzo che osserva. Quest’ultimo è inteso nella doppia polarità di osservatore specifico e persona collettiva, ovvero la totalità del pubblico che circonda la pista.
Non meno coerente appare l’enfasi sulla dimensione evolutiva. Una delle metafore più felici è infatti l’associazione con Giano, il dio bifronte con una faccia rivolta al passato ed una al futuro. La proposta del libro ha quindi l’aspetto di uno snodo. Si approda al tango accompagnanti da un vissuto, da un’esperienza, ma allo stesso tempo ci si apre al futuro, verso nuovi e diversi orizzonti, in una prospettiva che ha in sé la speranza in qualcosa di diverso e migliore, ovvero un bene pensato come esistente, che è quindi ragionevolmente sperabile di ottenere. Si tratta di una posizione di fiducia realistica, che prende le distanze sia da risposte illusoriamente facili a problemi complessi, magari all’insegna del “tutto e subito”, sia dalla negazione sistematica di ogni speranza e di ogni fiducia nelle possibilità umane. È una linea che può essere meglio compresa tenendo sullo sfondo i messaggi proposti da altri testi recensiti negli ultimi mesi: il disarmante senso di fine del gioco testimoniato da Syusi Blady, la demistificazione programmatica di ogni abbellimento posticcio dell’esperienza in una cornice di ferrigna rigidità, che è grossomodo la posizione di Raffaella Passiatore o la celebrazione di una futile superficialità inconcludente fatta da Carlo Rossella.
Il tutto viene collocato in un’altra e diversa prospettiva anche leggendo le pagine che Giusti e Marsiglia dedicano alle applicazioni terapeutiche in senso stretto. Sono passi che vanno accostati con prudente rispetto, al di là delle personali convinzioni sull’efficacia del metodo, o in qualunque modo si prenda posizione sulla dibattuta questione degli approcci farmacologici al disagio. Oltre le parole, in una sorta filigrana, si delinea un universo oscuro che di solito sfiora solo marginalmente il mondo più o meno rassicurante delle nostre esistenze quotidiane: l’infermità mentale, la dissoluzione dell’identità o la perdita del controllo del corpo che accompagnano le forme più gravi di malattie degenerative, oppure la stessa psichiatria istituzionale.

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Allargando il discorso credo che uno dei punti di forza del libro sia l’aver messo in evidenza le numerose analogie fra la milonga ed il laboratorio, inteso nell’accezione etimologica di luogo in cui si dispiega il labor, cioè lo spazio dove gli esseri umani imperfetti e fallibili mettono alla prova dei saperi pratici in vista di un obiettivo incerto, ma pur sempre collocato nella sfera del possibile. Dunque laboratorio psicologico per eccellenza, o meglio quello che risponde in modo particolarmente incisivo ai bisogni della contemporaneità, in particolare a quelli comunicativi e relazionali. Mi sia concesso solo un piccolo ricordo personale: quando cominciai a ballare, in un periodo di maldestri e acerbi tentativi, più che il dischiudersi dell’armonia e della bellezza mi colpì un fatto apparentemente secondario: la sconcertante rivelazione che il corpo poteva servire a qualcosa d’altro che non portare a spasso il mio cervello.
Praticare il tango significa quindi non soltanto sperimentare nuovi movimenti, ma anche nuovi modi di essere, diversi ruoli e altre modalità espressive. Tutte vie difficilmente praticabili nella quotidianità, dove anzi il loro libero fluire deve fare i conti con solo con la rigidità interiore di ognuno, ma anche con regole di comportamento, modelli socialmente riconosciuti ed accettati, e questo a tacere dell’ostracismo che il gruppo riserva a chi non corrisponde alle aspettative, siano esse tacite o espresse.
L'esperienza di ballare a milonga è inoltre necessariamente connotata dall’autenticità, poiché nel tango il corpo non mente. L’affermazione può essere declinata in due modi: su un piano superficiale, nessuno può vantare a lungo una capacità che non possiede, poiché un’ipotetica menzogna non resisterebbe alla verifica dei fatti e sarebbe smascherata in poco tempo. Ad un livello più profondo è molto difficile barare con il linguaggio corporeo. Se il codice linguistico permette di dire “voglio stare con te” senza pensarlo realmente, il codice della danza non consente di mostrare fiducia all’altro se non la si sperimenta davvero. Similmente, è quasi impossibile far capire di essere rilassati quando non ci si trova davvero in quella particolare situazione. Detto in forma poetica, non si danza altro che la verità.

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Il percorso sin qui delineato non presuppone una macerante introspezione solitaria o la più canonica delle alleanze terapeutiche tra medico e paziente, bensì avviene in un normale contesto di relazioni umane, da cui la possibilità di trasporre il messaggio del libro in linguaggio sociologico. Si potrebbe ad esempio evidenziare come la frequentazione di una milonga permetta al singolo di tesaurizzare una forma specifica di capitale sociale, cioè l'insieme delle relazioni interpersonali che risultano essenziali per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate. Si tratta quindi di una risorsa intangibile, incardinata nelle relazioni che l'attore intrattiene nella società, una risorsa che – si badi bene – permette al singolo di raggiungere proprio quegli obiettivi personali non raggiungibili in sua assenza. Il capitale sociale è dunque un bene sia pubblico che privato: alcuni vantaggi ritornano direttamente a chi si adopera per crearlo, altri invece arrivano anche ad altri, agendo in ogni caso come moltiplicatore.
Robert Putnam (Rochester, 9 gennaio 1941) ha offerto una brillante analisi del capitale sociale distinguendo tra capitale umano che serra (bonding) o che getta ponti (bridging). Appartengono al primo caso le associazioni di categoria, i dopolavoro, i circoli su base etnica e confessionale ed in genere tutte quelle comunità umane che tendono all'isolamento e rinforzano l’identità di gruppi già di per sé omogenei. Fanno parte del secondo le associazioni culturali, i gruppi di volontariato, i cenacoli artistici in generale tutte le realtà che guardano all'esterno e raccolgono persone di diverso livello sociale attorno un interesse comune o ad un bisogno non altrimenti soddisfabile. In un caso si rafforzano i vincoli comunitari già esistenti (effetto collante), nell’altro si creano delle relazioni aperte a chiunque condivida le norme del gruppo (effetto lubrificante).
Mi pare che la pratica della milonga, pur con i suoi difetti, un’inevitabile stratificazione interna e una certa dose di settarismo, sia chiaramente un gruppo bridging. Non è infrequente ascoltare testimonianze di chi osserva con stupore la possibilità di ballare, e quindi di relazionarsi, con persone da cui sarebbe altrimenti separato da barriere di ceto e di ambiente sociale.
Così Putnam:

le relazioni sociali sono rilevanti anche per le regole di comportamento che sorreggono. E reti non sono interessanti in quanto meri contatti, ma perché implicano (quasi per definizione) obbligazioni reciproche. I reticoli caratterizzati da impegno nei confronti della comunità stimolano solide norme di reciprocità (Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, il Mulino, Bologna 2004, p. 14)
Dunque questa rete di obbligazioni reciproche non costituisce soltanto la banale possibilità di aver sottomano una spalla per piangere, una conoscenza sfruttabile altrove, oppure la possibilità di attingere ad uno svago facilmente accessibile. Nel loro insieme esse arricchiscono e consolidano la trama dei propri indici di senso, cioè quella serie di riferimenti immediatamente decodificabili senza i quali l’individuo vivrebbe in una dimensione opaca ed inconoscibile, eternamente fluttuante, insidiata da disagio e paura.
Andando al di là dello specifico messaggio del libro è ora facile vedere lo scarto con alcuni aspetti tipici della modernità, in particolare il vivere di corsa e da soli, alle prese con modelli di comunicazione immateriali, quindi slegati dalla presenza. Essi facilitano le relazioni ma non il contatto autentico con le persone. La possibilità dell’anonimato, della distorsione della realtà o della menzogna deliberata producono una comunicazione che avviene spesso in forme imperfette, elusive, parziali e contraddittorie, dove anzi la mancanza di senso, l’esclusione o l’inautenticità sono rischi sempre più evidenti.
Andare a milonga presuppone non solo l’essere fortemente centrati sul corpo, dunque sulla forma più indiscutibilmente perentoria di ‘qui ed ora’, ma anche la capacità di costruire un dialogo reale, senza maschere o infingimenti, in cui la persona che abbiamo fra le braccia è riconosciuta è accettata prima di tutto come cosa diversa da sé.
Verrebbe immediato il paragone con il filosofo Emmanuel Lévinas (Kaunas, 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) ed in particolare la centralità dell’incontro con l'Altro, scritto significativamente con la maiuscola. Poiché l’uomo si fa soggetto per l’altro uomo, la sua identità consiste nella responsabilità di fronte a lui, quindi trascende sé stesso. Solo nell'accoglienza possiamo comprendere e superare la nostra percezione di un esistenza anonima. Ma l’idea di abbraccio nella danza corrisponde proprio ad accogliere un estraneo in uno spazio che di solito è privato, escluso dal contatto altrui. Presuppone necessariamente l’idea di fiducia, ovvero l’aspettativa di un’esperienza desiderabile nata in una condizione di incertezza, ma accompagnata da un sovrassenso emotivo che la collochi oltre la soglia della mera speranza. Dunque, per tornare a Lévinas, l'abbraccio non sarebbe altro che la forma di 'essere-per-l'altro' a cui è tassativamente impossibile sottrarsi, legata com'è alla nostra stessa corporeità.
Dal mio personalissimo punto di vista mi pare che questo sia un aspetto nodale, poiché nella società attuale si percepisce una continua ed irrisolta tensione fra due poli opposti. Da un lato, la condivisibile affermazione che non si può dare felicità agli altri se prima non si sta bene con sé stessi, cui si aggiunge un altrettanto sensato corollario che descrive le persone capaci di volersi bene come pronte ad attirare quasi magneticamente altri esseri umani. Dal canto opposto, la constatazione che questa legittima ricerca, all’atto pratico, finisca per essere spesso declinata in prima persona singolare: io.
Talvolta si coglie l’esortazione a voler bene anzitutto a sé, a gratificarsi, mettendo in primo piano la soddisfazione dei propri bisogni e l’appagamento personale, in una dimensione individuale e privata, se non addirittura a scapito di interessi altrui. Non è raro ascoltare l'insistente raccomandazione di bastare sempre a sé stessi, l’invito ad essere fortemente centrati sulla propria persona quale via maestra per la realizzazione personale nonché  assicurazione infallibile contro l’infelicità e la delusione: se infatti non mi lego ad alcuno evito di mettergli in mano un’arma che potrà usare contro di me, concedendogli ad esempio il potere di ferirmi quando inevitabilmente mi abbandonerà o mi tradirà; se non faccio affidamento su condizioni esterne non verrò travolto dal loro più o meno sicuro crollo; se infine non includo gli altri nei miei progetti eviterò di dover spartire i benefici con loro.
Si pensi solo all’intensità delle discussioni e dei dibattiti che si addensano attorno ad un tema per altro legittimo quale la ricerca dell’autostima, ovvero – si notino i corsivi - il personale giudizio che il singolo elabora del suo valore personale. L’ambizione a rendere minimo lo scalino tra l’immagine che si ha di se stessi e ciò effettivamente esprimiamo e realizziamo catalizza oggi emozioni e aspettative che un tempo erano esclusive delle fedi in senso tradizionale o delle idealità politiche, cioè percorsi fondati su un bene da costruire e raggiungere assieme: come comunità di credenti, nel primo caso, collettività secolare, nell’altro. Non è raro vedere persone immergersi nella lettura di manuali di auto-aiuto con la stessa carica di aspettative con cui le generazioni precedenti compulsavano S. Ignazio di Loyola o dibattevano il Libretto rosso.
La pratica sociale del tango avrebbe invece alcune caratteristiche del tutto particolari che non sarebbe immediato ritrovare in altri percorsi. Non soltanto il personale benessere dell’uno rimane irraggiungibile se egli non si preoccupa prima di tutto di quello dell’altro, ma in assenza di questo presupposto tale obiettivo non è neppure pensabile, esattamente come non è pensabile una mezza sedia: mobile per definizione non funzionale, semplice aggregato di legno e chiodi, privo di utilità.
Se si astrae per un attimo dalla differenziazione uomo-donna è inoltre facile vedere come i due aspetti siano del tutto speculari. Non si tratta infatti di un rapporto fra maestro e discepolo, fra allenatore e atleta, fra leader e gregario, tutti casi dove la relazione è giustificata dal riconoscimento e dall’accettazione di una specifica asimmetria relazionale. Né pare del tutto assimilabile ad altre forme di cooperazione come lo sport di squadra, l’associazionismo o l’impegno civile, quando invece l’aspetto normativo è in primo piano. Si tratta invece di una forma di socialità su basi paritarie che presuppone la rinuncia ad un tornaconto personale per la costruzione di un bene condiviso.
Si possono quindi trarre due conclusioni.
La prima è l’indicazione di una possibile via interiore per trascendere la logica dell’effimero, quella pulsione che spinge a riempire il vuoto di un presente angosciante colmando la propria solitudine con altre solitudini. Una Babele di desideri frustrati, di aspettative ostentate, di esistenze incomunicabili colme di ombre feroci e inafferrabili. La cupa e deprimente versione del noto concetto mordi e fuggi della storia d’amore di tre minuti e mezzo: tanto domani è un altro giorno.
La seconda è la convinta adesione ad un modello di mutuo beneficio come cornice ideale delle proprie azioni, ovvero - per quelli che abbiano familiarità con i concetti elaborati della teoria dei giochi - la cosiddetta win/win strategy.
La stessa idea di bene condiviso pone sul tappeto anche i modelli culturali e sociali che usiamo come metro di giudizio per valutare il nostro successo. Spinge infatti a far chiarezza sul senso ultimo delle proprie azioni, o – se si preferisce – induce ad interrogarci sulla singolare distonia fra ciò che leggiamo negli altri come indici di avvenuta realizzazione esistenziale e l’effettiva desiderabilità delle loro esistenze.
Sia chiaro. Quanto più una teoria è seducente tanto più la sua applicazione pratica rischia di essere ardua, scivolosa e pertanto fonte di brucianti disillusioni, come del resto tutti i percorsi che si basano sulla speranza di un bene futuro e quindi aprono all’incerto come premessa necessaria. Ma varrebbe forse la pena di tentare, specie se si considera quanto dolore sia causato dalle molteplici forme in cui si dispiega oggi la violenza di genere oppure da tutte quelle relazioni distorte che si basano sulla prevaricazione, sull’esercizio di un controllo o sulla manipolazione dell’altro. Piace sperare come piccole cose aiutino a sollevare lo sguardo dal cerchio ristretto delle nostre personali miserie, scoprendo scenari inaspettati che collocano la ricerca della felicità in un contesto del tutto nuovo.

Cosa è piaciuto
  • Proposta di un itinerario orientato al cambiamento e allo sviluppo, permeato da una visione di fondo positiva;
  • Bilanciamento fra rigore scientifico e chiarezza espositiva
 Cosa non è piaciuto
  • Nulla
Giudizio in una riga: Un confortante messaggio di speranza, ispirato da una fiducia realistica nelle possibilità umane.

La frase da ricordare: “Nella relazione, il maggior nemico è la rigidità, non il cambio di ruolo”

Scheda: Psicotangoterapia : danzare nell'abbraccio per cambiare / Edoardo Giusti, Veronica Marsiglia - Roma : Sovera, 2011. - 183 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-8124-966-4 Euro 16.00

giovedì 16 febbraio 2012

Funzionamento delle reti senza fili a milonga

Il cattivo tanguero è come il blue-tooth: ben connesso a te quando sei vicina, ma pronto a cercare altri dispositivi appena ti allontani.
La cattiva tanguera è come il wi-fi: controlla la potenza di tutti i segnali disponibili ma si connette solo al più forte e stabile.

domenica 12 febbraio 2012

R come tango. Intorno alla milonga postmoderna

Molti anni fa, nel pieno del mio ribollente entusiasmo da neofita, invitai a milonga una conoscente a cui volevo far scoprire la magia e la bellezza del tango. Ascoltò diligentemente le mie spiegazioni, si mise ad osservare le persone, tentò di immedesimarsi nell’ambiente cercando di cogliere l’atmosfera finché io ruppi gli indugi chiedendole ansiosamente che cosa ne pensasse. Mi rispose con il disarmante candore della profana: “Oddio, il tango è stupendo! Ma perché lo rovinate con ‘sta musica da vecchi?”.
Li per lì non seppi cosa risponderle, anche perché nella sala si diffondeva un brano dal vago sapore agée. Appiattita dal fruscio di un vinile, dalle profondità catacombali di un grammofono usciva la voce di un interprete nato ad occhio negli ultimi anni del XIX secolo e l’impressione generale era di qualcosa grossomodo contemporaneo al Quartetto Cetra o al Trio Lescano. L’impossibilità di dare una risposta plausibile a quella domanda diede inizio ad un lungo periodo di esplorazione musicale, sfociato dopo diversi anni nello specifico interesse di cui questo blog è espressione.
Conosco l’obiezione. Non è assolutamente legittimo ignorare l’assoluta qualità musicale dei tanghi degli anni trenta-quaranta (la cosiddetta “epoca d’oro”) a favore di incisioni recenti realizzate da orchestre contemporanee, siano esse formazioni tradizionali, ensemble elettronici o gruppi che nulla hanno a che fare con la musica da ballo. Ciò toglie al pubblico l’atmosfera irripetibile e frusciante del “buon vecchio tango di una volta” per colpa di proposte fuorvianti, lontane dalla consuetudine, in ultima analisi inutili e dannose. Il tango è già perfetto così com’è, nella forma in cui ci è stato consegnato dalla tradizione. Non c’è quindi alcun bisogno di modernizzarlo o di aggiornalo, anzi occorre impegnarsi per difenderne la purezza autentica, vigilando perché esso non si corrompa.
Sia chiaro. Non pretendo nessuna originalità né alcun diritto di primogenitura. Quando cominciai a mettere in discussione quanto ho riassunto sopra, il fenomeno aveva già una fisionomia ben riconoscibile ed inoltre - solo per restare in ambito locale - un musicalizador come Alessandro Simonetto aveva già da tempo sdoganato l’idea della creatività a milonga. Ciò che  rivendico come un possibile contributo autonomo è la capacità di costruire un discorso ben argomentato usando quegli strumenti che mi sono familiari dalla mia formazione e dal mio lavoro: la storia delle idee e l’antropologia culturale. Per illustrare la mia posizione ricorrerò ad una serie di esempi.

Il valore della norma
Non vi è alcun dubbio che gli anni ’50 abbiano segnato un momento altissimo nella storia della moda. In quel periodo lavorarono un gran numero di personalità di eccezione, le cui straordinarie creazioni hanno durevolmente influenzato i decenni a venire.

La qualità estetica di quelle realizzazioni è oggi universalmente riconosciuta e acclamata, tanto che i vestiti e gli accessori di quel decennio sono esposti nelle collezioni di tutto il mondo. Tuttavia, se per ipotesi qualcuno sostenesse che le donne di oggi possono indossare solo e soltanto copie esatte delle calzature di Ferragamo oppure riproduzioni perfette degli abiti di Chanel, egli verrebbe probabilmente travolto dalle risate dell’intero genere femminile. Un mondo dove le vetrine delle boutiques riproponessero eternamente solo gonne gonfie o abiti stretti in vita, perennemente uguali a sé stessi una stagione dopo l’altra, diventerebbe la negazione completa di ogni idea di creatività e di libera espressione, avvicinandosi semmai ad un cupo scenario orwelliano.
Ci si può legittimamente chiedere perché l’incongruenza di questa argomentazione appare evidente a chiunque, mentre l’affermazione che a milonga si debba ballare solo il tango dell’epoca d’oro viene presentata come un assioma indiscutibile, e quindi accettata di norma senza riflettere. Qual è dunque la differenza fra queste due posizioni? A mio umile parere nessuna: tutte e due mi paiono infatti insostenibili.
Si sente spesso argomentare che il tango degli anni trenta e quaranta costituisce il vertice assoluto di una specifica cultura musicale e che pertanto tutto ciò che è stato prodotto in seguito non abbia la stessa qualità. Di conseguenza, non merita di essere riproposto. Per la mia personalissima posizione, pochi concetti mi sembrano tanto detestabili quanto l’idea che il punto culminante di qualsivoglia esperienza umana sia collocato nel passato, specie se l’oggi venga presentato come uno scadimento o una degenerazione del buon tempo andato. Ne consegue che l’unico compito concesso a chi abbia la disgrazia di vivere nel presente sia un reverente lavoro di riordinamento, catalogazione, studio e incondizionata adorazione.
Ovviamente non sono d’accordo. Sostengo che si possa aver rispetto di una tradizione illustre senza esserne in soggezione, evitando cioè  di essere condannati ad un’eterna minorità creativa nei confronti delle generazioni che sono venute prima di noi. Provo serenamente a fare ciò che hanno fatto gli esseri umani di tutte le epoche: esprimere qualcosa che sia organico al mio tempo adoperando i mezzi che ogni epoca mette a disposizione, utilizzando quel tanto della cultura passata che possa risultare funzionale ai miei scopi. E’ ovvio infatti che nulla emerge all’improvviso da un deserto di informazioni bensì è collocato in una tradizione ed in un contesto. L’architettura, la moda, il design e tutte le arti visive sfruttano incessantemente citazioni, recuperi e ammiccamenti.

Tre esempi di design contemporaneo che incorporano citazioni di elementi stilistici databili verso la metà del XX secolo: da sinistra a destra, frigorifero Bosch KDL 19469 (forme arrotondate); Crysler PT Cruiser (linee del muso e particolare della calandara); Scarpa Jimmy Choo collezione primavera estate 2011 (zeppa a cuneo realizzata in corda).

Quando parlo della necessità di esprimere qualcosa che sia organico al mio tempo intendo soprattutto l’incertezza, il dubbio, la percezione di una complessità irriducibile, il venire meno delle rassicuranti sicurezze del passato, l’irrilevanza sociologica della fiducia in un futuro sempre migliore ed in perenne ascesa, la fine di riferimenti universalmente validi, la possibilità di rapportarsi a più ambiti culturali diversi, la percezione di un’esperienza frammentaria, camaleontica, eternamente mutevole, spesso incomprensibile e disorientante, ovvero tutto quanto si fa rientrare nella definizione – per altro assai controversa – di postmoderno. L’eclettismo delle scelte, la rinuncia programmatica ad una scaletta rassicurante e prevedibile (in quanto tendenzialmente sempre uguale a se stessa) indica non solo il rifiuto di un’unitarietà che sento come artificiosa ed imposta a priori, ma anche come dissoluzione dei tradizionali confini tra i generi, superamento delle strutture e degli stili tradizionali e infine accantonamento di modelli preordinati. Si realizza così un fluire di elementi diversi, la cui percezione d’assieme contribuisce a far emergere nuovi e inattesi significati che non erano compresi nell’accezione originaria dei singoli elementi.
In risultato non è assolutamente una falsificazione storica – poiché l’intento è apertamente dichiarato e tutto il processo rimane perfettamente riconoscibile – bensì una sorta di ri-creazione che è pertanto schiettamente postmoderna. Questo lascia spazio anche all’ironia, alla leggerezza, al gioco, allo scherzo ed alla sorpresa, persino alla dissacrazione, tutti elementi di solito tassativamente esclusi dalla milonghe più tradizionali, le quali sono normalmente intonate ad una rigida e pomposa seriosità.


La prescrizione di dover procedere in un certo modo solo perché “A Buenos Aires si fa(ceva) così” mi sembra indubbiamente degna di rispetto, ma ai miei occhi ha la stessa utilità di un manuale sull’avviamento a manovella dell’auto o un prontuario su come rammendare i gomiti dei costumi da bagno. La mia personale visione è che il tango, e con esso la musica da tango, sia quindi un perfetto esempio di fenomeno culturale di lunga durata che si trasforma liberamente all’interno di società complesse e plurali. Esso mantiene una sua percepibile unità sostanziale, anche se i modi e le forme con cui esso si manifesta sono di volta in volta diversi a seconda dell’epoca e del contesto.

Sia ben chiaro. La posizione opposta mi sembra egualmente legittima e altrettanto degna di rispetto. A prescindere da quanto dettato dalla norma in senso stretto - ovvero la legge - l’adeguamento ad una prescrizione rimane sempre interno al soggetto: tutto infatti si riduce ad una questione di indole, temperamento e attitudine. In un corteo si può infatti tranquillamente cantare “Bella ciao” senza per altro aver mai imbracciato uno Sten o messo un fazzoletto rosso al collo, come minimo perché si è nati negli anni ottanta e quelle vicende si sono lette solo sui libri di scuola. In questo caso lo slittamento temporale e culturale vale come un mezzo per attingere ad una specifica esperienza che in qualche modo sentiamo come fondante della nostra identità civile, ma la scelta di starsene zitti o cantare la canzone di protesta che si preferisce è legittima quanto la prima.
L’adesione al più tradizionale sistema di codici musicali mi sembra quindi un fatto rispettabilissimo, che può essere naturalmente letto come adesione interiore allo spirito di un epoca, oppure come via privilegiata per entrare in relazione con certe specifiche atmosfere e sensazioni. A mio personale parere rimane però uno dei tanti possibili itinerari individuali, ma non certo una norma generale valida automaticamente per tutti.
Si può obiettare che noi moderni leggiamo le peregrinazioni di Ulisse senza avvertire affatto la necessità di modernizzarle o adattarle al nostro tempo, ed anzi ciò che le rende attraenti è proprio l’esplorazione di un universo culturale completamente diverso da ciò che ci circonda oggi, giunto a noi intatto e senza contaminazioni di alcun genere. Il discorso non fa ovviamente una piega.
Ritengo semplicemente che questo principio sia valido in senso generale, ma del tutto inapplicabile alla scaletta musicale di una serata di tango. Vediamo perché.

Il valore di documento contro il valore d’uso
Immaginiamo per un momento di avere in mano un’antica mappa, non necessariamente un pezzo da museo, ma anche solo un esemplare di qualche generazione fa. Il materiale non più attuale di cui è fatta, il diverso modo in cui le informazioni sono organizzate e presentate, l’obsolescenza dei dati geografici, gli stessi segni lasciati dal tempo e la particolare sensazione che trasmette tenendola in mano  non sono elementi estranei da nascondere oppure da correggere. Essi invece la connotano, la pongono in uno specifico contesto e le conferiscono un’identità precisa. In altre parole, ne sostanziano la natura di documento, donandole un’atmosfera che la rende unica. Ogni tentativo di modernizzarla, di aggiornarla o anche solo di renderla aderente al gusto ed ai criteri attuali è un’ operazione non solo scorretta ma anche inutile e quindi fatalmente votata all’insuccesso.
Se tuttavia devo mettermi in viaggio, mi procuro la più aggiornata carta stradale che posso trovare, e bado anzi che utilizzi i criteri ed i metodi di rappresentazione più efficaci e moderni. Inoltre non ho nessuna esitazione ad aggiungervi note e segni, a strapazzarla oppure ad appiccicarvi sopra dei foglietti, se questo contribuisce a farmi arrivare con sicurezza a destinazione.
Qual’è la differenza? Nel primo caso si tratta di un recupero culturale, ovvero entro in relazione con un oggetto vedendovi principalmente un testimone di civiltà, al di la di qualsiasi beneficio concreto. Nel secondo si tratta di un’azione che avviene qui ed ora, di cui sono contemporaneamente protagonista e beneficiario: non vado infatti a milonga per vedere gli altri prodursi nella danza (come accadrebbe ad esempio a teatro) ma per farlo io stesso. Realizzo cioè un’azione che ha i caratteri del “qui ed ora”, in quanto avviene nel presente e si sostanzia nella cultura dell’oggi: un critico senza pregiudizi la collocherebbe senza esitazione nella performing art.
Ecco quindi il punto nodale: a prescindere da ogni possibile giudizio di autenticità e di valore, mi sembra che il tango dell’epoca d’oro sia prima di tutto il portato di una particolare atmosfera culturale, dunque perfettamente rappresentativo di uno specifico ambiente nonché del tutto organico ad una ben determinata epoca. Stupenda finché si vuole, ma di certo non la mia. Se dovessi studiarlo ne sarei probabilmente affascinato, esattamente come io stesso sono realmente sedotto da un varietà di manifestazioni della civiltà umana che oggi risultano non attuali. Poiché invece desidero usarlo mi sembra sensato lasciarlo li dove sta. Una volta che si sia persa di vista la forza dell’idea originaria, la ripetizione di un contenuto provoca di solito un impoverimento e un’inevitabile perdita di vitalità. Si pensi ad esempio ai tanti ceramisti artigiani che realizzano stoviglie e oggetti da tavola riproducendo serialmente un disegno tradizionale. Per quanto il modello possa essere illustre, l’esecuzione impeccabile o la tecnica eccellente, l’esito risulta perlopiù senz’anima, a meno che l’artefice non vi infonda qualcosa di suo. Se ciò non accade l’esito è una cosa morta, semplicemente sopravvissuta a se stessa. Molte delle espressioni umane consegnateci dal passato conservano un indiscutibile valore, espresso in una forma che non sentiamo più nostra, di cui dunque ci suonerebbe falso e artificioso l'uso contemporaneo. Sentiamo quindi che possiamo, anzi dobbiamo, cercare di essere creativi in altri modi.
Perché noi oggi non costruiamo piramidi o innalziamo cattedrali gotiche? Non certo perché difettiamo di capacità o siamo mancanti di mezzi tecnici, semplicemente perché quell’atmosfera spirituale oramai non ci appartiene più, dunque la tensione e lo slancio che animava quegli straordinari costruttori risulta per noi  inattingibile. Ciò non significa che oggi siamo inferiori agli egizi del medio regno o ai tagliapietre del trecento. Sentiamo dunque che possiamo, anzi dobbiamo, essere creativi in altro modo: le nostra energia non è si è spenta, viene semplicemente indirizzata altrove, ragion per cui gettiamo ponti sospesi e innalziamo dighe.
Per le stesse ragioni nessuno balla a scopo sociale e ricreativo le antiche danze di corte del XVIII secolo. Ciò non accade certamente perché ne abbiamo perso la memoria (sopravvivono infatti trattati e spartiti) ma perché il mondo di cui esse erano espressione risulta definitivamente scomparso: esse quindi sono mute alla nostra anima, dunque nessuno ne sente il bisogno. Possiamo quindi comprenderle con la mente razionale, ma non sentirle con il cuore. All’opposto, ritengo che il tango sia un fenomeno assolutamente vitale e che la sua storia sia invece un divenire continuo. A differenza del minuetto e della gavotta, esso ha invece raggiunto il nostro tempo trasformandosi ed evolvendosi senza sosta. Ciò non mi sembra affatto uno scadimento bensì proprio l’elemento che lo rende meritevole di attenzione. La fissità immutabile è invece propria delle cose morte e l’unico modo per rendere una creatura vivente perennemente uguale a sé stessa è quella di ucciderla, trasformandola in una reliquia. Ma le reliquie non si usano, si venerano a rispettosa distanza, magari le si maneggia con reverenti mani coperte da candidi panni e la stessa idea di modificarle appare empia e sacrilega.

Su creatività e tradizione
Dal mio personale punto di vista, mi sembra infatti che quella del musicalizador sia prima di tutto un’attività di tipo creativo e solo secondariamente pedagogica. In altre parole, chi decide l’atmosfera musicale di una serata mira sostanzialmente ad esprimere se stesso ed a suscitare il gradimento delle persone in sala, senza necessariamente sentirsi vincolato al rispetto di norme e di criteri che non siano quelli funzionali al risultato che egli ha in mente. “S'ei piace, ei lice", sosteneva già Tasso. L’idea che il valore di un atto creativo si misuri con la diligente fedeltà ad un modello, benché illustre, mi sembra infatti del tutto estranea alla cultura del nostro tempo oltre che essere un’affermazione evidentemente auto-contraddittoria.
Detta in termini diversi, affermare che propongo un falso tango perché non mi sento vincolato al repertorio delle incisioni storiche è come dire che noi non usiamo la vera lingua italiana poiché parliamo e scriviamo diversamente da quanto faceva Manzoni. Se davvero questa argomentazione fosse fondata, i romanzieri di oggi potrebbero scrivere soltanto testi che abbiano protagonisti dei giovani fidanzati, siano ambientati in una città della pianura padana e contengano riferimenti a malattie infettive.
Scrivere libri e decidere una scaletta musicale rientrano invece nelle attività creative, dunque sono tanto libere nel fine quanto libere nei mezzi. La proposta di un percorso musicale che sia allo stesso tempo filologicamente corretto e storicamente rappresentativo è senza dubbio legittima e sicuramente possibile, ma rientra, a mio modesto avviso, tra i compiti di musicologi e critici. Poiché non appartengo né all’una né all’altra categoria, mi astengo dal farlo.
Mi sembra invece legittimo procedere nella direzione opposta, come minimo avendo davanti gli occhi una serie di fenomeni ricorrenti nella cultura europea. Non appena si delinea un sistema di generi, quando si sedimenta un canone oppure nel momento in cui si forma l’abbozzo di un sistema normativo, allora nasce regolarmente il desiderio di tentare intersezioni fra settori rigidamente separati oppure di sperimentare un sovvertimento delle norme, il quale va dai più impalpabili scostamenti alle più eclatanti trasgressioni. Spesso il risultato di quest’operazione si rivela interessante, e – in prospettiva – fecondo. Thomas Gainsborough dipinse il celeberrimo Blue Boy (c. 1770) come risposta polemica alle teorizzazioni del rivale Joshua Reynolds. Egli raccomandava di usare esclusivamente i colori caldi per i primi piani riservando invece le tinte fredde - ed in particolari gli azzurri - ai soli sfondi, il tutto prendendo sempre a modello la più illustre tradizione italiana. Gainsborough infranse consapevolmente la norma applicandola a rovescio ed il risultato fu uno dei più acclamati capolavori della pittura inglese del XVIII secolo.


Il tutto ovviamente ha dei limiti precisi. Come si può scrivere un saggio sulla follia senza usare una sintassi da alienati, così mi sembra lecito inserire anche delle proposte provocatorie ma rispettando i limiti della coerenza interna, dell’effettiva ballabilità e soprattutto del buon senso. Il confine fra originale e stravagante mi sembra infatti assai tenue: c’è quindi il rischio di vendere la propria incompetenza come libertà, la cialtroneria come spirito creativo, l’imprudenza come apertura mentale. Ovvio che un risultato felice presupponga sempre una verifica costante del gradimento poiché altrimenti si rischia un discorso completamente autoreferenziale, paragonabile  forse al compiaciuto intellettualismo di certa letteratura.
Sempre in tema di letteratura, credo che un moderno musicalizador abbia qualcosa da imparare dalla drammaturgia in lingua inglese, dove si può mettere in scena un dramma di Shakespeare preoccupandosi essenzialmente della fedeltà allo spirito del testo, senza per altro sentirsi vincolati dalle specifiche convenzioni del teatro elisabettiano, in cui per altro quel testo affonda le sue origini. Accade così di vedere allestimenti persino anacronistici, in cui compaiono ad esempio oggetti o abiti contemporanei, senza che nessuno gridi al crucifige.




Compito del regista di un opera teatrale non è quello di riprodurre scrupolosamente il lascito di un passato illustre, ma di trovare il miglior compromesso possibile fra l’intenzione ultima dell’autore, la tradizione rappresentativa (ovvero l’idea condivisa di come quell’opera vada messa in scena) e infine il suo personale apporto creativo. A seconda delle circostanze, l’uno o l’altro aspetto prevale.

Permette l’aceto balsamico sulle fragole? Una divagazione sulla gastronomia
Alcune proposte culinarie fuori dal comune sembrano assolutamente immangiabili quando vengono descritte, ma risultano invece sorprendentemente appetitose nel momento in cui si supera il pregiudizio culturale e ci si accosta al nuovo con curiosità ed apertura. Anzi, proprio il gradimento segnala in modo incontestabile l’avvenuto allargamento degli orizzonti. Allo stesso modo alcune proposte musicali possono sembrare delle stravaganze fine a se stesse finché non si mette da parte la diffidenza e si prova a ballarle, scoprendo magari l’intima soddisfazione nell’averle interpretate.
Credo infatti che l’inserimento di una proposta inusuale, creativa o anche dichiaratamente provocatoria, sia infatti positivo in ogni caso. Se la novità è stata gradita il risultato è in attivo, poiché la persona ha scoperto qualcosa di bello che prima non conosceva. In caso contrario ne risulta comunque un guadagno, avendone pur sempre ricavato una più esatta perimetrazione del proprio gusto personale e una convinzione più solida nel difendere le proprie scelte, sempre nei limiti del rispetto reciproco.
Mi sembra a questo proposito che il paragone più sensato sia ancora una volta con la cucina. Nella stessa città possono tranquillamente lavorare  dei cuochi attenti ai ricettari più tradizionali ed altri chef dediti alle più ardite sperimentazioni della cucina creativa. Gli uni potrebbero guardare agli altri con reciproca diffidenza, ma i secondi di certo reagirebbero con sorpresa alla contestazione di proporre una gastronomia ingannevole solo perché essa non rientra in una definizione preordinata oppure perché le loro preparazioni non figurano nei ricettari di Artusi. Essi sono dunque simili benché non intercambiabili: accomunati dalla condivisione di un insieme di elementi comuni sentono di appartenere alla medesima categoria, ma se si scambiassero di posto essi si troverebbero senza dubbio a disagio.

Conclusione. Fra dadaismo e grammatica
Con una certa audacia, si potrebbe forse dire che le proposte di un musicalizador creativo siano una sorta di ready-made musicali. Un oggetto, magari prodotto in serie e dichiaratamente privo di valori estetici, si trasforma in arte per autonoma decisione dell’artista stesso, nel momento stesso in cui egli lo presenta al suo pubblico. L’opera non è quindi data dall’oggetto in sé, talvolta misero e banale, bensì dalla rivelazione della creatività umana in quanto valore autonomo, come pure dal processo mentale che è sotteso in chi osserva.
Far passare a milonga una musica che non sia nemmeno tango, magari neanche pensata per essere ballata, soddisfa non solo la naturale inclinazione umana alla novità ed alla varietà ma costituisce anche un invito sottile ma perentorio a lasciarsi dire qualcosa, a mettere temporaneamente da parte le proprie convinzioni, a esplorare territori nuovi. Lo stesso percorso che nasce dal contemplare un orinatoio di porcellana: ci spiazza, ma ci costringe ad usare occhi diversi, a rompere gli schemi mentali, liberando fantasia ed immaginazione.

Marcel Duchamp, Fountain, 1917. L’artista sceglie oggetti comuni, privi di valore intrinseco, e ne rivela al pubblico le qualità estetiche mediante la loro semplice ostensione.

Allo stesso modo il musicalizador creativo rivela al frequentatore di milongas il valore di brani che egli mai avrebbe pensato di poter ballare con soddisfazione, semplicemente inserendoli nella sua scaletta musicale.
Da molto tempo si è ormai abbandonata l’idea di una grammatica prescrittiva, con cui determinare delle norme rigide stabilite a priori, accogliendo invece la moderna nozione di grammatica descrittiva. Padroni della lingua non sono le accademie bensì i parlanti, i quali la plasmano liberamente sulla base dell’uso. La grammatica è quindi il deposito e la lenta sedimentazione di una prassi.
Parafrasando quanto appena detto, si può affermare i padroni della musica da tango sono le persone che se ne servono per ballare. Non esiste quindi nemmeno un vero e un falso tango, tanto che la stessa questione mi sembra solo un lambiccato sofisma. Si possono semmai discriminare - e qui ammetterei, al limite, la nozione di “falso” -  tutte quelle esperienze che nascono da una semplificazione truffaldina, da una distorsione deliberata, da un volgarizzamento senza criterio oppure dalla più furfantesca cialtroneria. Ma giunti fin qui credo di aver dimostrato a sufficienza, se non la mia tesi, perlomeno la mia capacità di argomentare in modo persuasivo. Esiste semmai una sorta di darwinismo musicale, ovvero una scelta musicale che si rivela gradita e apprezzata dal pubblico (la quale tende a venir riproposta e si riproduce per emulazione) e una che invece non lo è, destinata invece ad un progressivo oblio.
Tanto per restare in tema ci si potrebbe ad esempio chiedere se l’inglese americano sia più o meno “vero” (uso di proposito le virgolette) dell’inglese britannico. Per la linguistica una simile domanda non ha nemmeno senso, poiché l’idea di degenerazione o di crescita di un idioma in termini di valore è del tutto estranea. Le lingue semmai si differenziano progressivamente tra loro, e non c’è alcuna differenza qualitativa tra il cosiddetto “BBC English” e un qualsiasi pidgin africano.
Mi pare quindi che fra il tango dell’epoca d’oro e le espressioni del contemporaneo ci sia lo stesso rapporto che intercorre fra l’aulica solennità di una lingua letteraria – pensata come perfetta e ormai cristallizzata dalla venerazione - e l’espressivo dinamismo di un idioma corrente. Esso accoglie parole straniere, conia neologismi, esplora tutti i possibili registri, include persino il triviale e il bizzarro, tollera errori che a poco a poco si sedimentano come nuove norme, finché si afferma un nuovo uso e così via all’infinito.
Palazzeschi, Slataper e Gadda -  andate a curiosare in biblioteca - stanno sulle stesso scaffale di Manzoni.

P.S. Questo articolo è stato scritto per scommessa, sostenendo che sarei stato capace di stendere un testo originale sul tango illustrandolo in modo coerente con le foto di un cesso e di un frigorifero Bosch.

sabato 4 febbraio 2012

Funerale di Carlos Guadalupe

Ricevo via mail la la personale testimonianza di Alessio. Mi sembra che per umanità e qualità espressiva possa interpretare la sensibilità di molti, pertanto volentieri la condivido con il consenso dell’interessato.

Data: 04/02/2012 20.12
A: <dr.zerotango@libero.it>
Ogg: funerale di Carlos Guadalupe

Caro dottor Zero,


vorrei raccontarti il funerale di Carlos, perché è una persona che ricorderò con piacere e resterà un personaggio del nostro piccolo grande mondo tanguero regionale di cui tu dai conto in modo così accurato nel tuo blog.
Le esequie si sono svolte oggi sabato 4 febbraio 2012. Prima c'è stato un saluto alla cappella di Sant'Anna a Trieste, poi alle 14.00 il funerale al quale ho assistito, a Tapogliano, vicino a Villesse.
Non ero mai stato a Tapogliano, è un grazioso borgo rurale, arrivando ho visto subito le campane che dondolavano e ho trovato la chiesa. Faceva freddo, tirava molto vento, uno stormo di uccelli ha attraversato veloce il cielo grigio per poi scomparire da qualche parte. Numerose automobili occupavano tutte le strade del paese. C'era molta gente sul sagrato, in attesa dell'arrivo del feretro. Sono entrato nella graziosa chiesetta ed era piena, perciò ho dovuto addossarmi ad una parete. Nonostante la folla c'era un silenzio assoluto e siamo rimasti così per alcuni minuti fino a che è arrivato il corteo funebre.
La bara è stata ricoperta con un poncho argentino, un mazzo di rose rosse ed uno rosa e con un bel cappello grigio da tanguero, posto proprio davanti.
Ad aprire la cerimonia sono stati Simonetto con il violino e Giorgio con il piano che hanno suonato alcune note di "Por una cabeza". Poi c'è stata la cerimonia presieduta da un anziano sacerdote, che ha notato come non gli capitasse tanto spesso di vedere lì tanta gente per salutare un defunto.
Verso il termine ha preso la parola il figlio di Carlos, Federico, il quale ha ringraziato tutti per essere stati vicini in questi momenti e ha citato il libro che il padre gli aveva regalato più di una volta, anche ultimamente, Il Piccolo Principe.







Ha citato il dialogo tra Il Piccolo Principe ed il serpente, quando il serpente dice, se non sbaglio, che bisogna togliersi la pelle perchè il corpo è troppo pesante per arrivare lontano, e quando Il Piccolo Principe dice all'amico che si ricorderà di lui guardando le stelle fuori dalla finestra. Infine ha citato in spagnolo la frase, che spero di riportare correttamente “Los essenzial es invisible al los ojos” (Ciò che è essenziale è invisibile agli occhi), frase che Carlos amava ripetere.
Hanno chiuso la cerimonia i due musicisti che stavolta hanno tratto delle note da Oblivion.
Piano piano abbiamo sfollato, sono stato tra gli ultimi ad uscire e già il feretro di Carlos era stato trasportato via, così mi sono ritrovato tra gli amici ed i conoscenti, per poi avviarsi ad un piccolo ritrovo commemorativo nei pressi.
Per me Carlos è stata una bella persona, era positivo, sorridente, gentile, era un piacere ascoltare i suoi aneddoti sul tango o conversare con lui, spero perciò di avere dato un piccolo contributo per ricordarlo.


 Ciao

mercoledì 1 febbraio 2012

Come trovare il ballerino perfetto

Alcuni giorni fa ho ricevuto in prestito Allegro ma non troppo di Carlo M. Cipolla (Pavia, 15 agosto 1922 – 5 settembre 2000), libro che non conoscevo direttamente pur avendone varie volte sentito parlare. Contiene fra l’altro una raffinata analisi della stupidità umana in cui vengono enunciate delle leggi generali, tra cui la celebre definizione di stupido come persona che arreca danno agli altri senza ricavarne benefici per se stesso. L’argomentazione è condotta con l’ausilio di alcuni efficaci diagrammi che il lettore è inviato ad utilizzare autonomamente, inserendovi di propria mano le caratteristiche gli stupidi da cui è disgraziatamente attorniato.



Incoraggiato dalla positiva accoglienza che ha avuto la recensione di Tango Math, ho pensato di adattare in modo semiserio l’approccio di Cipolla ai ballerini che affollano una milonga ordinando la capacità tecnica di chi danza in sequenza crescente, come a voler costruire un’immaginaria classifica. All’estremo sinistro, vicino al fondo di questa ipotetica graduatoria, si collocano le persone dotate di modeste capacità e mediocre talento, oppure i principianti ancora acerbi. All’estremo opposto, in prossimità della vetta, troneggiano quanti dominano perfettamente la danza, ballano alla perfezione, sono padroni della ritmica e si destreggiano senza difficoltà fra movimenti più complessi. Tutti gli altri sono variamente sgranati fra i due estremi.


Ci si accorge subito che questa scala di valutazione è insufficiente. Si può infatti incontrare un ballerino dalle capacità raffinatissime ma talmente pieno di sé da non accorgersi minimamente dei desideri e dei bisogni della sua partner. Per altro, non è raro trovare uomini meno esperti, ma caldamente umani e naturalmente empatici, sempre rassicuranti, attenti ogni volta a danzare per costruire la coppia, offrire piacere alla donna senza mai fare sfoggio di capacità o compiacere il proprio ego.
Occorre quindi introdurre un nuovo asse, perpendicolare al primo, su cui valutare la propensione all’altruismo: verso la base si collocano gli esibizionisti, i boriosi falsamente convinti di saperla lunga, i sedicenti maestri, all’estremo opposto le persone orientate all’ascolto, sensibili ai segnali corporei, comunicative, dotate di una certa dose di umiltà e di modestia, sinceramente desiderose di offrire alla donna un’appagante esperienza condivisa.

  • Nel quadrante in alto a sinistra incontriamo quindi il Buon samaritano, cioè la persona che dona con generosità quel poco possiede, anche a costo di rendere evidenti a tutti i suoi scarsi mezzi e di esporsi al giudizio negativo di chi sta attorno.
  • In basso a sinistra ecco il Cialtrone, tipico ballerino di modeste capacità, convinto in cuor suo di possedere un grande talento, il quale si comporta come un’insopportabile prima donna. Egli di solito affligge la sua partner con continue critiche, la incolpa metodicamente di ogni errore, cerca di correggerla a sproposito, oppure marca imperterrito dei movimenti complessi che lei dimostra di non conoscere o non gradire;
  • Il quadrante adiacente è invece l’habitat del Narciso, il ballerino indubbiamente dotato ma tutto preso dalla necessità di mettersi in mostra e di auto compiacersi della sua bravura: il famigerato uomo che balla con se stesso.
  • In alto a destra si libra ineffabile l’Angelo, ovvero quella persona che unisce la superiore intelligenza corporea ad una serie di caratteristiche positive quali la grande capacità di ascolto, un’attenzione tutta speciale verso i segnali non verbali o infine una spiccata empatia che arriva fino ad attribuirsi la colpa di un errore altrui pur far sentire la sua partner più brava di quanto non sia in realtà.
Raccogliendo i valori in tabella si può esprimere il risultato come una matrice:


Capacità tecnica
Propensione all’altruismo
Buon samaritano
-
+
Cialtrone
-
-
Narciso
+
-
Angelo
+
+

Il gioco ovviamente può continuare poiché l’esperienza della milonga mostra che la grande varietà dei casi reali non si possono ridurre alla combinazione di questi due parametri soltanto. Occorre quindi prendere in considerazione anche la piacevolezza della persona, ovvero tutto quanto si può descrivere  in termini di avvenenza, fascino, carisma, cura di sé, pulizia, eleganza, distinzione, classe e stile, bontà d’animo, educazione, gentilezza e simpatia. Si introduce così un terzo asse, perpendicolare al piano, che dunque esce sopra e sotto di esso. Per esigenze di chiarezza, il grafico viene ora rappresentato di scorcio:


E’ facile osservare come i tre piani tra loro perpendicolari definiscono così un cubo, nel cui volume si possono collocare tutte o quasi le combinazioni reali:



Presso il vertice anteriore sinistro (posizione A) si addensano le persone che raccolgono solo segni meno, ovvero il nefasto trittico composto da modeste capacità, irritante atteggiamento da maestrina e alito da caciocavallo. Ogni lettore lo associ idealmente a chi vuole, scegliendo fra le tante che il destino le ha posto di fronte: collochi quindi mentalmente sul grafico l’immagine della persona che più detesta. Verso il centro del solido la grande massa anonima, né buona né cattiva (posizione B).
All’estremo opposto, in direzione del vertice posteriore destro, quindi in posizione C, stanno quegli uomini che totalizzano esclusivamente segni più, ovvero hanno sviluppato al massimo grado possibile la padronanza tecnica, la volontà di far sentire la propria partner una dea, unitamente alle caratteristiche del perfetto gentiluomo.


Collochi il lettore il nome della persona più sgradita in corrispondenza della posizione A, usando la riga punteggiata che troverà già predisposta qui sotto. Per la posizione C, come si vede, non ci sono spazi da riempire. La fredda matematica e le rigide intersezioni dei piani cartesiani non lasciano scampo poiché il ballerino perfetto condivide una spiacevole caratteristica con il bonario vecchietto che porta i doni. Entrambi, sfortunatamente, sono creazioni di fantasia.