domenica 5 agosto 2012

Il tango è (sempre) una storia d'amore... e non una rosa in bocca, di Pier Aldo Vignazia

Non so se anche a voi sia capitata la stessa cosa. Lasciate cadere lì, anche senza enfasi, che siete degli estimatori di jazz. Vedrete le vostre quotazioni sociali aumentare rapidamente, sarete percepiti come raffinati intenditori di cose eleganti, testimoni di una cultura senza tempo che appartiene in senso specifico ad artisti ed intellettuali.
Proclamatevi invece amanti del tango argentino. Specie se maschi, la vostra esternazione sarà probabilmente accolta da qualche sorrisetto obliquo e passerete i successivi minuti a discaricarvi da una giungla di luoghi comuni, intenti a rettificare laboriosamente tutti i possibili stereotipi che sono rimbalzati nella mente del vostro interlocutore. Nella migliore delle ipotesi verrete catalogati come degli eccentrici stravaganti.
Eppure non sono lontanissimi i giorni in cui si descriveva il jazz con sprezzanti connotazioni razziste quali “musica da negri” a tacere di altri tristi cliché. Esso però si è ormai definitivamente emancipato dalle specifiche connotazioni sociali ed etniche delle sue origini, finendo per essere suonato, composto e ascoltato ovunque nel mondo con esiti colti, tendendo anzi ad accreditarsi come la forma peculiare di musica alta che appartiene in senso specifico alla modernità contemporanea.
A prescindere dai diversi esiti, le analogie tra jazz e tango restano tuttavia impressionanti: simile orizzonte cronologico, analoghe ascendenze africane, medesima sintesi di più linguaggi artistici, stessi legami con un originario status di marginalità sociale, analoghe espressioni di nostalgia, malinconia e disagio, stessa enfasi sull’improvvisazione, spiccato virtuosismo strumentale con specifici elementi di rottura rispetto alla tradizione europea. La differenza essenziale, a farla scherzosa, sarebbe solo uno scadente ufficio stampa.
Sono proprio questi i punti di partenza del volume: la rivendicazione per il tango di un posto di primo piano nel panorama delle arti del novecento e il conseguente lavoro di ripulitura per scardinare una sovrastruttura spuria composta da cliché, distorsioni e fraintendimenti.
Per comodità di chi legge, il percorso dell’autore si può dividere in due grandi filoni. Il primo è lo scarto fra l’immagine stereotipata del tango nella cultura popolare e ciò che accade realmente in una milonga. Il secondo è il biasimo per il progressivo allontanamento dal modello tradizionale, in particolare per il formarsi di uno iato sempre crescente tra la pratica del tango in Italia e in Argentina. In entrambe i casi Vignazia dà prova di un’insuperabile conoscenza di prima mano, unita ad una profonda familiarità con la materia e ad un’indiscutibile padronanza di cose sudamericane. Tutti elementi presentati al lettore con consumata abilità dialettica. Per sostenere le sue argomentazioni egli utilizza infatti una forma che è un continuo oscillare tra l’apologia e il pamphlet: dalla prima trae il concetto di difesa appassionata di un bene sentito come prezioso, dunque meritevole della più ampia tutela; dal secondo assume la struttura retorica dell’argomentazione, il linguaggio densamente metaforico, lo spirito polemico di chi, combattendo con vigore la generale acquiescenza, intende presentare i fatti nella piena luce della verità combattendo tutte le interpretazioni difformi. A tal fine sono impiegate anche una cospicua serie di vignette che sfruttano un felice tratto grafico e una mordace verve da disegnatore satirico.


1) Il respiro del pensiero lungo
Mi pare che nel testo circoli un’idea assai bella: il tango non si può comprare. Si possono acquistare dei corsi di tango, libri di tango, calzature da tango, ma l’elemento essenziale è ciò che non si commercia: una particolare inclinazione, una certa attitudine interiore, quell’essere spiritualmente vicini ad uno specifico modo di stare al mondo e di relazionarsi. Quindi la scelta di dedicarsi a qualcosa che richieda una lenta pratica ed un ancor più lungo affinamento personale può essere letto come una forma di amore per una bellezza non destinata ad una fine programmata, opzione tanto più meritoria se si pensa a come la maggior parte delle proposte da cui siamo circondati siano spesso sotto il segno dell’insignificante, del futile, dell’inessenziale oppure inseguano il modello illusorio del tutto e subito. La pratica coscienziosa del tango sarebbe quindi un’opzione non solo possibile bensì addirittura doverosa in quanto riaffermazione di un valore dello spirito nel significato più stretto, la dedizione verso ciò che non si consuma usandolo, che quindi costituisce un bene di civiltà nel senso più alto.
E’ un po’ la stessa risposta che dò io a quanti mi chiedono perché perda tempo a scrivere dei testi così analitici, quando secondo gli standard correnti un commento che superi le cinque righe si considera già troppo e la forma abituale di partecipazione ad un dibattito è scegliere se cliccare “Mi piace” oppure “Non mi piace”. Prendendo a prestito una definizione della politica, credo che tanto io che Vignazia siamo entrambi attratti da forme specifiche di quel che si chiama il respiro del pensiero lungo, l’amore per tutto ciò che è lento a costruirsi ma ha una durata non effimera, che permette di far buon uso dei talenti e quindi contribuisce ad arricchire il presente con forme di esperienza preziose che si deteriorano profondamente o addirittura scompaiono se non le si colloca in una visione più ampia possibile dell'esistenza. Dunque una ricerca di qualità.
Lo spirito pungente dell’autore viene perciò indirizzato ad una salutare opera di ripulitura e di chiarificazione, mostrando un talento non comune nel confezionare espressioni che hanno il mordente degli epigrammi. Sono frasi spesso di fulminante efficacia, capaci di indurre chi legge ad interrogarsi sul valore effettivo della convenzionalità, anche mostrando la fatuità di atteggiamenti che non sono altro che il sedimentarsi progressivo di pratiche e di abitudini consolidate.
Solo in qualche punto il testo pare correre sopra le righe: è pur sempre vero che la frequentazione delle milonghe offre talvolta esempi notevoli di mauvais goût e certo nessuno può negare che Vignazia dimostri un felice talento di osservatore descrivendo la platea maschile come uomini che danzano vestiti da spazzacamino o topi d’appartamento. Lecito invece chiedersi se la donna normale che legge il testo abbia sufficiente autoironia per ridere di sé descritta come “squillo di alto bordo” o “battona”.

2. Fra Italia e Argentina
Praticare il tango, e ancor di più selezionare le scalette musicali delle serate, sarebbe essenzialmente un’opera di gusto che non tollera alcun tipo di sciatteria, dunque un’operazione fondata su saldi criteri di organicità, coerenza interna e armonia. Inclusioni di elementi estranei sono quindi impossibili ed anzi nemmeno pensabili, perché è nella natura delle cose che qualsiasi operazione tendente ad armonizzare elementi allogeni sia destinata all’insuccesso, in quanto puramente velleitaria e generatrice di sterile accozzaglia. Logica e buon senso impongono invece di tenerli nettamente separati, perlomeno come istintiva forma di rifiuto per tutto ciò che è raffazzonato e improvvisato.
Discostarsi da questa regola provoca la stessa forma di repulsione che ci assale alla vista di certe sconvolgenti operazioni urbanistiche, ad esempio quando in un quartiere storico – dunque connotato da un’architettura coerente, frutto dell’applicazione di tecniche edilizie antiche che prevedono l’uso di materiali tradizionali - viene inserita una costruzione di acciaio, realizzata con elementi prefabbricati secondo procedimenti industriali, priva di qualsivoglia nesso formale e funzionale con tutto quello che la circonda e perlopiù con dimensioni talmente sproporzionate da risultare oppressiva su tutto il resto.
Occorre invece procedere all’opposto. Individuare amorevolmente ciò che è organico ad una cultura, trovare delle icone ancora ricche di significati e di valori tradizionali difendendole da ciò che è estraneo, diverso e moderno. Ad esempio - tanto per usare le metafore gastronomiche care all’autore - impegnandosi a tutelare il baccalà e la polenta quali simboli più tradizionali della cultura veneta minacciati dalla gastronomia esotica, dai prodotti d’importazione nonché dalla diffusione dei fast-food.
Semplice e facile. Peccato che la prima descrizione si attanagli perfettamente al caso della Tour Eiffel, che nel sentire comune è invece il simbolo universale della Parigi più autentica, vera e tradizionale; e che soprattutto baccalà e polenta di veneto non abbiano un bel nulla: la prima si fa infatti con il mais, arrivato dall’America, mentre il secondo non è altro che stoccafisso essiccato, il quale si pesca nel mare del Nord e non nella laguna di Chioggia.
Queste due provocazioni mostrano come nel giudicare i fenomeni culturali adoperiamo categorie mentali assai complesse, ad esempio “tradizionale”, “organico”, “classico”, “innovativo”, “vero”, “falso” ecc. senza in genere riflettere sul loro effettivo valore, tanto da restare sorpresi quando scopriamo che il nostro punto di vista è più la sedimentazione di un’abitudine che non qualcosa di ben ragionato.
Il valore specifico di un contenuto culturale può infatti essere descritto con due approcci divergenti: nel sentire comune, su un piano superficiale, lo attribuiamo istintivamente alla capacità di restare se stesso, di opporsi cioè ad ogni tentativo di mescolarsi con altro resistendo all’incorporazione di elementi estranei. Su un piano più profondo, lo si può invece leggere altrettanto bene come attitudine al confronto e all’influenza reciproca, dunque come capacità di generare incessantemente elementi nuovi, diversi e inediti mediante la ricombinazione di quelli già esistenti.
Se istintivamente tendiamo a percorrere quasi sempre la prima strada è perché in genere il pensiero analitico è molto più agevole del pensiero di sintesi. Esistono strutture profonde della mente umana che ci rendono assai ben attrezzati per scoprire differenze, cogliere specificità, individuare discrepanze anche minutissime, ma ce la caviamo assai meno bene a collocare le idee in un più ampio contesto oppure nel riconoscere affinità tra cose che superficialmente paiono distanti o addirittura non avere nulla in comune. Anzi, intere scienze nascono proprio con l’obbiettivo di evidenziare similitudini profonde tra cose e fenomeni che apparentemente sono diversissimi.
Spesso è proprio la distanza dagli eventi a giocarci dei brutti tiri, ad esempio non facendoci percepire l’evidente elemento di rottura di qualcosa che ai nostri occhi è sempre stata lì, mentre troviamo stridente la vista del Beaubourg nel 4ème arrondissement piuttosto che l’odore di felafel nel centro di Padova.
Queste osservazioni segnano quindi il punto dove il mio giudizio diverge. Se sono convinto che Vignazia abbia fatto un’opera meritoria di demistificazione fornendo informazioni corrette ai tanti che si compiacciono di immaginare rose in bocca, casquet ed altro, non mi pare che il resto sia argomentato in modo altrettanto convincente.

3. Senso dell’ordine o amor infiniti?
Immaginiamo un paio di esempi realmente esistenti, ad esempio un rotolo di seta con una sacra famiglia dagli occhi a mandorla, oppure un S. Pietro con il viso prognato e la pelle scura affrescato sulle parete di una chiesa africana. Solo il più retrivo dei fedeli descriverebbe queste scelte come irrispettose o esclamerebbe con fastidio: “Quello non è vero cristianesimo!” Anzi, ogni tentativo di mostrare che quella specifica interpretazione artistica vada respinta poiché in Vaticano, o in qualunque altro posto, quei soggetti vengono trattati alla luce di una diversa sensibilità sarebbe letta come una retrograda forma di sopraffazione nonché una plateale manifestazione di un ottuso e quindi insopportabile colonialismo culturale.
Questo esempio non è che la manifestazione specifica di un modello di portata generale: quando un dato di cultura oltrepassa i limiti del contesto specifico in cui è nato, quando inizia a veicolare significati che possono essere compresi al di là del suo ambiente originario, quando produce esperienze condivise da un gran numero di persone su scala tendenzialmente globale, allora si osservano regolarmente due fenomeni. Essi sono la graduale evoluzione rispetto allo stato di partenza e la progressiva differenziazione in esperienze diverse.
Per mio specifico background culturale ciò non mi sembra una deviazione da riportare sui giusti binari, bensì proprio la cifra che accomuna i più interessante fenomeni culturali della storia e le maggiori idee dell’umanità. Al concetto di divisione di poteri elaborato nella Francia del XVIII secolo corrispondono oggi una pluralità di forme democratiche applicate ovunque; l’idea indifferenziata di jazz si è ramificata oggi in una moltitudine di generi e di sottogeneri; il pensiero di Freud costituisce un nucleo coerente ed organico ma gli analisti rimasti fedeli alla sua eredità sono oggi una piccola minoranza mentre il solo elenco dei vari approcci psicanalitici contemporanei occupa oggi pagine intere; dall’intuizione originale di Siddharta Gautama hanno preso origine molteplici scuole di pensiero e così via.
Esistono, è bene non dimenticarlo, dei modelli espressivi che non si evolvono, si riproducono tendenzialmente uguali a se stessi perpetuandosi immutati, ma sono di norma l’espressione di una comunità umana ristretta che vive in un contesto isolato oppure la manifestazione di un particolare tipo di esperienza religiosa. Due fra tutte: la Schuhplattler, la famosa danza dei boscaioli che è tipica di certe particolari valli alpine e non si ritrova affatto in altre, oppure ad alcune forme di danza sacra, ad esempio quelle di tradizione induista, dove il movimento coreutico è esso stesso una forma di preghiera e di liturgia. Ma entrambe le strade mi sembrano inapplicabili. Credo che ballare il tango sia qualcosa di eccezionalmente più complesso e profondo che non battersi i calzoni di daino con le mani; se poi si comincia ad ammettere che esso rappresenti una teofania o sia interpretabile come una trascendenza allora tanto vale parlare del simbolismo esoterico del codice fiscale o del valore mistico delle rotatorie.
Se il tango facesse eccezione, se cioè esso fosse un fenomeno che aspira ad essere un linguaggio universale, ma capace di riprodursi sempre identico a se stesso grazie ad una sua qualità specifica, esso sarebbe poco meno che un unicum nella storia dell’umanità. Ma leggendo il libro non è chiaro in cosa tale qualità consista: soprattutto la giustificazione di questa eccezionalità richiede spiegazioni molto più persuasive di quante non ne vengano date al lettore.
 La mia sensazione è che dietro una brillante forma dialettica si profili un’aporia: rivendicare per il tango una collocazione fra le “grandi creazioni musicali del 900, insieme con il jazz” ed allo stesso tempo biasimare quegli esiti che ne sono all’incirca la diretta, normale ed inevitabile conseguenza. Un po’come desiderare ardentemente un figlio e – una volta messolo al modo – affliggere il prossimo lamentandosi di aver perso la linea.
Mi pare quindi opportuno un confronto con un altro testo recensito di recente, la monografia di Elisa Guzzo Vaccarino. Se la prima descrive il tango come l’espandersi di una frontiera, un percorso quindi di esplorazione e di scoperta, Vignazia procede invece in direzione opposta e la sua ricognizione si sostanzia nell’apporre segnaletiche, collocare pietre miliari, infiggere picchetti, stendere recinzioni, tracciare confini, alzare barriere. Sono tutte operazioni legittime ed è facile vedere come nel desiderio di conferire ordine e comprensibilità traspaia il sincero e profondo amore dell’autore, l’impegno a presentare il tango in una luce di unicità. L’enunciazione perentoria di una norma, ricorda l’antropologia, serve prima di tutto a riaffermare la sua importanza, più che a impedire una temuta trasgressione.
Ma allo stesso tempo si tratta di scelte delimitano, contengono, bloccano, circoscrivono e indirizzano. Dove Elisa Guzzo Vaccarino descrive il tango come uno slancio di libertà, un’irradiazione inarrestabile verso il futuro, il leitmotiv di Vignazia è l’idea di “tornare a”: tornare al modello sudamericano, tornare alla musica tradizionale, tornare alla prassi consolidata e così via. Un essere ‘contro’ che investe pressoché tutto: le incisioni contemporanee, il tango nuevo, le scalette musicali delle serate, le abitudini individuali, persino l’abbigliamento, fino a perdersi in dettagli che lasciano a volte una sensazione di acribia e di puntigliosità fine se stessi.
Il lettore apprende ad esempio la differenza tra le milonghe di Buenos Aires - frequentate solo e soltanto per amore disinteressato del ballo - e quelle di casa nostra, dove invece vengono vissuti anche gli aspetti della socialità in tutte le loro possibili declinazioni. Confesso che questa puntualizzazione mi sembra inutilmente crudele: il mondo moderno produce una grande quantità di spazzatura emotiva sotto forma di solitudini feroci, alienazioni brutali o velenose angosce esistenziali. Se la pratica del tango offre la possibilità di sperimentare nuove e feconde relazioni nel mondo reale, ingentilisce la vita e rende meno intollerabile l’esistenza ciò andrebbe salutato come una benedizione, non come un fraintendimento da correggere. Detta altrimenti, mi pare semplicemente uno dei tanti casi in cui si è verificata una graduale emersione di benefici non compresi nell’idea originale, la stessa forma di realismo pragmatico che ci induce a non rifiutare i vantaggi della cardioaspirina solo perché era stata originariamente messa in commercio come analgesico.
Non meno radicale è la negazione, a priori, di un qualsivoglia valore estetico alla pratica di danzare su sonorità contemporanee, idea che viene esposta in forme talmente rigide e perentorie e tassative da evocare quasi l’idea di un’impurità. Comunque la si pensi sull’argomento, mi pare un argomentazione non molto solida, tanto che basta riformularla a rovescio per mostrarne la sua assai relativa solidità: ballare su un incisione originale, poniamo, di Canaro è forse garanzia automatica di un risultato artisticamente valido, o almeno condizione necessaria ma non sufficiente? Se così fosse  basterebbe verseggiare nel latino aulico di Catullo per essere veri poeti, o preparare i colori secondo le ricette del XVI secolo per rivaleggiare con i maestri del rinascimento, mentre è ormai nozione diffusa che il valore di un opera stia essenzialmente nella freschezza e nell’autenticità dell’atto creativo, in quanto cioè vi abbia trasfuso l’artefice.
 Siamo dunque arrivati ad uno snodo che si può formulare in questi termini: esiste un nesso fra cosa si fa e come lo si fa? Detto altrimenti, nelle opere umane è lecito separare la forma dalla sostanza?
Per Vignazia si tratta di un punto chiave della sua assiomatica, un’idea che non si dimostra ma serve per verificare la validità di altre idee: la pratica del tango è solo quella tradizionale, con la sua complessa struttura di elementi formali, altrimenti si produce qualcosa che va sotto altro nome, da cui peraltro occorre stare giudiziosamente alla larga. Il tango va quindi incondizionatamente accettato in blocco così com’è, senza riserve, oppure meglio indirizzarsi verso altre forme espressive. Lo si accoglie e lo si pratica esattamente come ci è stato consegnato dalla storia, ovvero un fenomeno artistico ormai inseparabile da un complesso apparato di codici, di usi, di tradizioni e di modelli che ne sostanziano l’identità.
La posizione possiede una sua indubbia fondatezza anche se osservata in modo smaliziato ha qualcosa dei Lefevriani: la vera celebrazione eucaristica può essere solo quella di rito tridentino (dunque in latino, con l’officiante rivolto all’altare ecc.) diversamente non si può parlare di messa mancando degli elementi irrinunciabili. Per altro, piace notare come la società contemporanea sia stata arricchita dall’opera preziosa di donne magistrato solo dopo che il contenuto del giudicare è stato finalmente disgiunto dalla forma della professione maschile; è confortante sapere che possiamo trasmettere un contenuto amoroso senza essere vincolati alla forma del sonetto, che pure è stato per secoli il metro indiscusso della lirica sentimentale; infine tutti noi contribuiamo ad un avanzamento di civiltà quando pensiamo al contenuto reale dell’espressione ‘diritti’ astraendo dalla loro forma, ovvero dallo status della persone cui essi di volta in volta fanno capo. Tutto ciò fa almeno intuire come la questione non sia affatto semplice come talvolta la si presenta: di fatto costituisce invece il punto essenziale di numerose teorie sociologiche, estetiche e filosofiche.
Spesso tendiamo a dimenticare una cosa. I fenomeni culturali ‘vincenti’ sono indubbiamente quelli che oltrepassano il loro contesto originario e si universalizzano, come si ricordava sopra, ma soprattutto quelli in cui si verifica uno sganciamento tra forma e sostanza. Mi sembra che lo stesso jazz invocato dall’autore come meta ideale cui tendere sia un esempio molto calzante. Non solo buona parte delle esperienze contemporanee hanno pochi o nessun riferimento allo specifico contesto originale, ma se oggi qualcuno affermasse che soltanto gli afroamericani nati negli stati del sud possono fare il vero jazz, insegnare agli altri cosa esso sia o non sia, oppure determinarne in qualche modo l’evoluzione, egli verrebbe guardato con educato scetticismo poiché esiste una schiera di musicisti di altre e diverse origini che hanno prodotto risultati di prim’ordine.

Sia chiaro. La qualità delle notizie e delle informazioni che Vignazia propone al lettore sono incontestabili: la sua esperienza di prima mano, la conoscenza enciclopedica, la lunghissima frequentazione di ambienti e di persone dall’una e dall’altra sponda dell’oceano sono dalla sua parte. Ponendosi nella prospettiva del praticante per diletto, rimane invece la sensazione che questo corposo repertorio di differenze tra Italia e Argentina finisca per mettere sul tappeto più problemi di quanti non ne risolva. Se da un lato risulta utilissimo per sollevare lo sguardo oltre il cerchio chiuso della propria esperienza, collocando cioè il proprio agire in un contesto più ampio, non è per altro semplice comprendere dove termini la coscienziosa esplorazione di un altro e diverso orizzonte di civiltà e dove invece inizi la confortante ripetizione di un rituale. Né il testo illumina su come distinguere un semplice costume introiettato per imitazione dalla cosciente e volontaria perpetuazione di un retaggio, inteso come specifico valore di cultura basato su codici non scritti e regole informali.
In tal senso il libro pare assai distante dalla sottile finezza interpretativa e dal sereno equilibrio che caratterizzano così bene Haim Burstin. Nel procedere di Vignazia non si coglie né la volontà di conciliare posizioni diverse in una visione che le trascenda entrambe, né l’impulso a  riconoscere elementi di fondatezza anche in punti di vista diversi dal proprio, né tantomeno una posizione dubitativa o la manifestazione di un’incertezza. La struttura argomentativa è semmai condotta da una posizione arroccata, ben protetta dalle roccaforti della tradizione, dell’esperienza diretta e dell’autorità.
Questo procedere apodittico e perentorio lascia al lettore una sensazione curiosa: il concetto di lealtà indefettibile ad un nucleo di idee sentito come non negoziabile, l’enfasi e su comportamenti e ruoli codificati, la necessità di un lavoro di indagine che è indubbiamente approfondimento ma che rivendica allo stesso tempo una funzione normativa ed interpretativa alla ricerca di una pratica ‘corretta’ sono altrettanti elementi che raramente appartengono alla creatività e allo svago. In genere si ritrovano nella militanza politica attiva, in certe passioni sportive collettive e più specificatamente nell’esperienza di fede tanto che nel loro insieme paiono indirizzare verso un’inedita forma di religione laica. Una metafora vagamente sinistra descrive anzi la pratica distorta del tango utilizzando categorie concettuali che risultano piuttosto lontane dai modelli della critica artistica o dalla letteratura sulle attività ricreative: blasfema parodia dei riti sacri in un luogo di culto.

3. Milonguero ludens
L’impressione di massima è che tutti i fenomeni lamentati da Vignazia non siano esclusivi del tango ma che appartengano alla condizione umana nel senso più vasto, quindi convenga semmai interpretarli da un punto di vista più generale possibile.
In qualsiasi esperienza si può riconoscere l’eterna oscillazione fra nostalgia e irrequietezza, ovvero tra la tensione verso un altrove sentito come perfetto, rispetto al quale ogni possibile realtà non può essere che uno scadimento, o l’ansia di nuovi mondi futuri, che possono essere esplorati solo mettendo in discussione una parte più o meno cospicua del presente. Ognuno è chiamato prima o poi a scegliere tra la rassicurante ripetizione di ciò che già conosce, in uno spazio comprensibile che non ammette zone bianche, e la spinta verso ciò che si trova oltre i confini che sono stati tracciati da altri.
Seguire a testa bassa l’una o l’altra via porta in entrambi i casi dei rischi. La costante riproposizione degli stessi contenuti nelle medesime forme rischia di incagliarsi in uno stanco manierismo, ed anzi spinge proprio verso la duplicazione dei più truci luoghi comuni perché sono quelli più facilmente comprensibili e comunicabili. All’opposto, se si ammette a priori che tutto è in relazione con tutto, si perdono di vista i tratti peculiari dei singoli elementi costitutivi ed il risultato tende a dissolversi in una costruzione informe.
Sia ben chiaro. Nel recupero del passato non trovo nulla di pregiudizievole. Anzi, esistono un’ infinità di pratiche, di esperienze, di opzioni che appaiono interessanti e degne di attenzione proprio perché inattuali e quindi capaci di arricchire la nostra esperienza aggiungendovi un continuo e fecondo dialogo fra passato e presente. Non ho nessuna difficoltà a collocare il tango fra di esse ed a trovarlo gradevole anche per questo specifico aspetto. Mi pare tuttavia – e questo è il nucleo della mia argomentazione - che nelle esperienze creative questo tipo di recupero debba riguardare prima di tutto le emozioni, in quanto espressione universale dello spirito umano, e solo in seconda istanza le forme, che sono invece il portato di un contesto specifico, esattamente collocato nello spazio e nel tempo. E’ per questo che la tautologica esclamazione “mica siamo argentini!” sembra contenere non solo una bonaria saggezza ma anche un’inconsapevole profondità, mentre la vigorosa confutazione che ne offre Vignazia in tutto l’arco del libro si smarrisce in questioni che talvolta paiono secondarie: in che modo la gioia sperimentata in prima persona da chi danza viene arricchita dall’apprendere che sulle rive del Rio della Plata ci si cambia le scarpe con criteri diversi dai nostri?
A volte infatti tutti noi perdiamo di vista le cose più evidenti: frequentiamo le milonghe da dilettanti. Il che non va inteso nel senso deteriore di “inferiori a qualcun altro”, sia esso un oriundo sudamericano, un insegnante di talento o una qualsiasi persona che possa vantare più anni di pratica, più solida autorità o più consumata esperienza. Occorre invece considerare dilettanti nel significato etimologico di esseri umani che si dedicano a qualcosa per il solo scopo di trarne piacere, un’esperienza quindi che trova dunque piena e totale legittimazione in se stessa, senza necessità di appoggiarsi a nessun altro sistema preordinato o ad una qualsiasi architettura normativa. Si tratta, per dirla con Pennac, di un’attività che non tollera l’imperativo.
Postulare l’opposto è ammettere che una persona possa trarre gioia solo da ciò che altri hanno stabilito a priori, in nome di teorici percorsi culturali (Ma quali? Scelti da chi? Sulla base di quale criterio?) che di solito coprono solo un’estensione assai piccola rispetto alle multiformi espressioni dell’esistenza. L’idea di dover regolare qualcosa che può esistere soltanto se libera parrebbe una laboriosa contorsione mentale.
Le scienze pure hanno criteri di validazione interni. Le scienze a statuto debole ed in genere tutti gli studi applicati presuppongono un metodo condiviso o si presentano come dei saperi più o meno formali. Restano le metafisiche, di cui non ci occupiamo, e le verità rivelate, che spettano ai ministri del culto. Ciò che rimane sono tutte infinite espressioni dello spirito umano, forze creatrici che sono tanto libere nei mezzi quanto libere nei fini. L’arte, l’inventiva, il gioco, per loro stessa natura, sono svincolati da ogni forma di legittimazione che non sia l’appagamento e la gioia che da essi traggono quanti vi si dedicano. Si tratta di qualcosa che ha in sé una preziosa scintilla di infinito, la libertà di esplorare, di gioire spiritualmente in nome della creatività. Non a caso tutta la letteratura sul tango insiste sul fatto che uno degli elementi di superiorità rispetto alle altre danze d’abbraccio è proprio quello di offrire al praticante dei margini di creatività e di improvvisazione altrove nemmeno concepibili.
Detta altrimenti, qualsiasi esperienza, prassi, idea o modello che allarga le nostre possibilità e permette di abbracciare una più vasta gamma di opzioni mi pare migliore di qualsiasi altra cosa che le restringa o le delimiti. Mi sembra cioè che ogni piccolo o grande avanzamento sia avvenuto ampliando, dilatando o allargando e che invece i tentativi di restringere, incanalare e guidare non siano stati altrettanto fecondi. L’evoluzione e la crescita si sono storicamente costruiti sull’abbondanza: sul numero di scelte e sulla ricchezza di possibilità che vengono rimesse al discernimento individuale, sulla possibilità di intersecarle e di combinarle in modo nuovo. Qualunque strada che contrae il settore della necessità – in cui si trova quello che altri hanno deciso si possa o non si possa sperimentare - estende automaticamente la sfera della libertà, cioè il campo in cui si sviluppano quelle attività autonome, collettive o individuali, che trovano fine in se stesse e piena legittimazione nel piacere che se ne trae.
Ed è proprio su questo aspetto che il volume pare aggrovigliarsi in percorsi inutilmente tortuosi. Viene celebrato il carattere ribelle del tango, danza refrattaria alle regole ed alle imposizioni, ma tutto il libro ha in filigrana la necessità di indirizzare i praticanti verso una prassi ‘corretta’ – il che fa intravedere la nozione di accademico - e questo richiamo pare tanto insistito da scorgere quasi un certo dirigismo. Si ricorda con compiacimento il meticciato culturale in cui esso affonda le radici, ma l’attuale incorporazione di elementi nuovi e diversi è accolta con insofferenza e fastidio.

Che il tango - direbbe Ligabue - condivida il destino di tante cose umane, quello di nascere incendiari e morire da pompieri?

Cosa è piaciuto:
  • Schietto carattere satirico nel tratteggiare definizioni taglienti e azzeccate
  • Impareggiabile sintesi di competenza ed esperienza diretta
Cosa non è piaciuto:
  • Interpretazione di fenomeni culturali con modelli a volte riduttivi, letti da un’angolazione troppo ristretta
  • Percorso eccessivamente sbilanciato sul lato della normazione

Giudizio in una riga: Un filo d’Arianna per districarsi nei labirinti del tango. Ma esiste poi l’uscita?

La frase da ricordare: “Il risultato [del tango elettronico] è un allegra e caotica sarabanda, dove i fedeli si prendono gaiamente a calci in qua e in là mentre il musicalizador mette nel lettore quel che gli passa per la mente seguendo imperscrutabili disfunzioni della sua chimica neuronale”.

Scheda: Il tango è (sempre) una storia d'amore... e non una rosa in bocca : (come conoscerlo meglio e vivere un po' più felici) / Pier Aldo Vignazia ; disegni dell'autore ; prefazione di Sergio Staino - 2. ed - Lecce : Sigillo, [2008] - 200 p. : ill. ; 22 cm. - ISBN 978-88-89990-11-7 Euro 15,00


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