lunedì 25 novembre 2013

Recensione: Lezioni di tango raccontante da una principiante, di Anna Mallamo "manginobrioches"



Il tema dell’evoluzione personale, il faticoso evolversi da uno stato di inadeguatezza verso una perfezione grazie alla quale sarà finalmente possibile vedere risultati dell’impegno profuso, è un tema ricorrente in tutte le culture umane. Dal mito al cinema, dal materiale favolistico alla letteratura colta, il protagonista deve sempre affrontare una serie di prove, misurarsi con la sconfitta, affinare via via le proprie capacità fino alla risoluzione finale che apre ad un nuovo equilibrio finalmente stabile.
Angela Mallamo, in Lezioni di tango raccontante da una principiante, gioca abilmente con le convenzioni del genere proponendo la trasposizione letteraria della propria esperienza di ballerina alle prime armi. Il lettore è guidato così attraverso un campionario di momenti ed esperienze che sono stati familiari a chiunque: il doloroso confronto con i praticanti più abili, lo spazio della milonga con i suoi codici a volte crudeli, il rapporto con le proprie scarpe da ballo vissute come entità senzienti, vero e proprio topos della letteratura femminile sul tango ormai ampiamente esplorato. Se si limitasse a questo il libro sarebbe poca cosa, un esempio più che decoroso di letteratura autobiografica.
L’aspetto più interessante è invece il ribaltamento consapevole di quella struttura narrativa delineata all’inizio. La vicenda - per usare le stesse parole della Mallamo - è infatti quella di un “eterno principiantato”. Non c’è un lieto fine o almeno la prefigurazione di una nuova realtà, dove le angosce e i turbamenti saranno finalmente risolti in una visione serena, stabile e rassicurante, ma nemmeno una totale chiusura di ogni speranza in un nebuloso presente, dove si è condannati ad una sorta di autistica coazione a ripetere i medesimi errori.
Al contrario, proprio l’incertezza e il dubbio sono la condizione necessaria  per mantenere uno sguardo incantato sul mondo. Stupirsi di qualcosa, anche se non si è capaci ancora di riprodurla, non è forse potentemente vitale? Di cosa mai ci si potrebbe meravigliare, se tutto è ormai incasellato in un ordine prevedibile che non lascia spazio al nuovo?
Il messaggio viene proposto al lettore con una scrittura morbida e serena che si snoda delicatamente in una serie di brevi capitoletti dove la vita della principiante di tango viene trasposta in modo lirico, a tratti sognante. Molta della suggestione viene da un’ambientazione meridionale, spesso evocata da periodi attentamente costruiti: “un solo filo luccicante che attraversava tutta la notte”, “capriole nel cielo e scirocchi” oppure “un tango greco, straziante e con gli angoli avvolti nel ferro filato”. Descrizioni di ambienti, sapori, odori e situazioni che rimandano ad repertorio di carnalità mediterranee, che in qualche caso ricordano da vicino certi accostamenti di Battiato. Il testo si legge volentieri anche per il sottile citazionismo che allude con eleganza ai classici del liceo (i “vestimenti leggeri” di D’Annunzio) o strizza l’occhio ad un “dopobarba verde come una milonga”, con esplicita allusione alle canzoni di  Paolo Conte.

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Ad un livello profondo, il messaggio proposto dal libro è quasi paradossale: amare teneramente i propri difetti e accudire con tepore materno i propri limiti non è solo possibile, ma addirittura doveroso. Se infatti la perfezione resta un ideale astratto e indifferenziato, condiviso a livello sociale, sono proprio le nostre im-perfezioni a parlare compiutamente di noi, a dire esattamente chi siamo o chi non siamo, a dare corpo e sostanza al nostro stare al mondo assieme agli altri. Così l’autrice:

“Non troverete traccia, in queste pagine, delle “gallerie degli orrori tangueri”, i tipi da milonga, i bestiari che pure sono così divertenti a bordopista. E’ una scelta etica, equa e solidale: siamo tutti principianti irrimediabili […] è il mondo del tango a farci umani, troppo umani.”

Se la scelta di misurarsi con chi sta più in alto è di solito la premessa di corrosive manifestazioni di invidia, il mettersi a confronto con chi si trova in una posizione inferiore induce per altro la superbia, il compiacimento di sé o la sterile tracotanza. La consapevolezza reciproca delle proprie manchevolezze disegna invece una maglia di legami orizzontali che ci solleva dall’angosciosa rincorsa di una perfezione che spesso esiste solo nella nostra testa, ma soprattutto libera dall’ingiunzione perentoria della felicità a tutti i costi, un velenoso tratto distintivo delle società moderne.
Il libro induce a considerare quanto vi sia di inautentico e disumano in ogni proposta che prometta di sradicare qualsiasi esperienza sgradevole dalla nostra vita, magari anche solo valutando con occhio più indulgente il famigerato “rosso badante”, allusione ad improbabili colorazioni di chiome altrui,  spesso usata con un senso di divertita superiorità. Un modo di dire che svela d’incanto la nostra insospettabile capacità di cogliere al volo la differenza tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che non si è, tra la realtà e le sue cesellate rappresentazioni che mettiamo in scena a nostro uso e consumo, illuminandoci per altro sulla loro ardua ricomposizione.

La soluzione, sembra dirci la Mallamo è un invito a considerare con occhi benigni questo scarto altrimenti insopportabile, trasformandolo in un fenomeno evolutivo. Ma tutto ciò passa attraverso una rivalutazione del termine ‘principiante’, spesso associato ad una sfera negativa: “roba da principianti!”, è infatti l’esclamazione tipica quando ci imbattiamo in qualcosa di impreciso, malfatto o dilettantesco, lontano da uno standard soddisfacente.
Ma principiante, in senso strettamente etimologico, è esattamente chi principia, chi da inizio a qualcosa che prima non esisteva. Proprio il momento dell’inizio porta con sé nuovi mondi, apre molteplici futuri e rende possibile il  dispiegamento di potenzialità non ancora attuate. L’essere agli inizi di qualcosa ha dunque una promessa di futuro e porta con sé una speranza gentile di vita da compiersi. Direste voi che una gemma di marzo è solo una rosa principiante?

Cosa è piaciuto:

  •  fine e innovativa capacità di analisi
  • qualità stilistica e raffinatezza espressiva
  • efficace ribaltamento dei meccanismi narrativi consueti

   
Cosa non è piaciuto:
  •      nulla


Il giudizio in una riga: raffinata ed elegante trasposizione di un’esperienza autobiografica, ricca di riflessioni stimolanti.

Scheda completa: Lezioni di tango : raccontate da una principiante / Anna Lammamo "manginobrioches". - Reggio Calabria : Città del sole, 2010. - 95 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-7351-395-7 Euro 12,00

sabato 9 novembre 2013

Recensione: Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo



A quell'epoca -  lo ricordo ancora vividamente - ero capace di ballare utilizzando solo la sciatta versione di un improbabile abbraccio largo, da poco appreso a lezione. Ma una sera fui gratificato per la prima volta da un contatto che iniziava dalle tempie e sprofondava verso il torace per poi dissolversi in qualche zona imprecisa all’altezza delle anche. Era una forma inedita di gradimento senza riserve oppure una modalità di ballo che prima non avevo mai sperimentato? Lo sguardo carezzevole di lei nasceva della sostanza immateriale della danza, oppure da un’altra, ben più solida e corporea?
Feci così conoscenza con uno degli aspetti più insidiosi della pratica sociale del tango: l’ambivalenza. Gesti, situazioni e rapporti tra esseri umani non hanno un significato stabilito, bensì vivono di una natura sfuggente ed elusiva, si prestano cioè a venir letti e interpretati in modo del tutto diverso dalla loro intenzione originale. Questo è proprio uno dei meccanismi tipici della gelosia, dove una situazione del tutto normale viene vissuta come se possedesse un valore diverso, il che diventa la premessa per una grande quantità di sofferenza inflitta a se stessi e agli altri.
Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo è la versione con l’adattamento e la regia di Massimo Navone (produzione Tieffe/MaMiMò) andata in scena al teatro Giovanni da Udine il 5 novembre 2013 nell’ambito della rassegna Crossover-Teatro Arti in Scena.
Il dramma viene trasportato in un’ambientazione sudamericana degli anni quaranta, all’interno di una milonga, il Sagittario, sfondo ideale per una vicenda di potere, manipolazione e di cupe ossessioni che trova nell’ambiente del tango la sua cornice ideale. La danza non è un semplice abbellimento esteriore ma agisce come un amplificatore di emozioni, ingigantisce gli eventi, li riveste di un nuovo significato. Il contatto dei corpi, gli sguardi, i gesti e in genere tutte le ambiguità della comunicazione non verbale sono qui il carburante della gelosia, il mostro dagli occhi verdi che esploderà nel drammatico finale.
L’auesto adattamento vale dunque come ennesima conferma della vitalità di questa danza, la cui forza specifica non sta tanto nella capacità di restare sé stessa, fedele alle sue origini, bensì nell’attitudine a generare costantemente significati nuovi entrando in relazione con fenomeni culturali anche diversissimi, generando ibridazioni, messaggi inediti perlopiù non compresi nell’idea originale.
Molto efficace la scenografia, in linea con il gusto moderno di proporre ambientazioni essenziali, ma senza cadere in un minimalismo troppo spinto. Gradevole il registro cromatico tutto giocato sul toni del piombo e del nocciola, assai suggestivo nel creare una vivida suggestione d’ambiente.

  
Gli stessi colori vengono ripresi dalle divise dei protagonisti maschili con un’ involontaria strizzata d’occhio all’Hamlet di Kennet Branagh (1996), dove invece le uniformi impeccabili giocate sui toni scuri rimandano ad un’efficienza nordica, astratta e impersonale.



Qui  invece il color cachi e le fogge cadenti evocano un’humedad sudamericana, qualcosa di sbracato e di liso che vedremmo bene addosso al colonnello Aureliano Buendia. Come in una sperduta Macondo, l’azione si svolge in un’isola, circondata da uno spazio ostile dove la presenza del nemico è rivelata da molteplici e sottili allusioni. La situazione rimanda ad un topos della letteratura d’armi ovvero la contrapposizione tra uno spazio esterno, territorio della sopraffazione e della morte, e un ambiente chiuso e relativamente protetto dove la musica, il canto o in generale qualche forma di espressione artistica consente di entrare in contatto con una dimensione umana temporaneamente smarrita. Tra i tanti esempi un delicato frammento di Umberto Saba, tratto dal Teatro degli Artigianelli:

[…]
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il canone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Anche al Sagittario è tutto un trasmigrare di bottiglie e di bicchieri, ma qui l’allusione va alle tante letras di tango dove l’alcool non è riposo e provvidenziale ottundimento dei sensi, ma veleno mortale che acuisce una pena, la rende viva e presente. 
Tutto lo spettacolo è giocato del resto su una violazione dei codici più o meno scoperta. Bella la scelta di far partecipare come ballerini gli appassionati di tango del locale circolo Arci Zoo (pienamenti convincenti in un ruolo certo non facile) come pure l’invito a danzare rivolto al pubblico nell’intervallo. Sono due proposte che erodono i tradizionali confini tra professionisti e dilettanti della scena, come pure quelli tra spettatori e pubblico. Ma non va dimenticata la commistione tra brani del repertorio tradizionale e sonorità elettroniche firmate da orchestre contemporanee, come pure gli stessi movimenti degli attori sulla scena. Questi spesso riprendono gli stilemi delle esibizioni da palcoscenico, una situazione dove i ballerini professionisti giocano regolarmente con l’attrazione e la repulsione dei corpi.

Su questo aspetto è opportuno spendere qualche parola in più. Spesso ci si compiace di descrivere la relazione d’abbraccio come una accoglienza generosa dell’altro, ma in due esseri umani che ballano c’è anche molto di lotta, di conquista dello spazio, di forza.

 
Il confine tra due corpi che lottano e due corpi che si abbracciano è infatti permeabile e fluttuante: basta uno scarto minimo per passare dall’amore alla gelosia.
Ed è in questo punto che si misura tutta l’intelligenza della proposta di Navone. Da un lato una danza complessa basata su ruoli di genere netti che richiedono l’assunzione (ancorché temporanea) di modelli precisi e non negoziabili, di comportamenti funzionali e di attitudini precise senza i quali l’esperienza del ballo non è realizzabile e neppure pensabile. Dall’altro un’interpretazione della modernità secondo la quale gli uomini uccidono sì le donne, ma solo perché la messa in discussione dei rapporti tra i sessi gli ha lasciati disorientati e senza certezze. Essi sarebbero quindi le variabili impazzite della società, incapaci di adattarsi ai cambiamenti socioculturali, intenti a lanciare richieste di aiuto affinché cessi questo pericoloso processo di destabilizzazione dell’ordine naturale. Basta dunque dichiarare di essersi sbagliati e tornare al punto di partenza.
E ancora riecheggiano le voci di quanti si preoccupano di ricondurre il delitto passionale ad una forma di amore portato all’eccesso, afflitto da una sorta di dismisura patologica della quale il maschio si sente in genere irresponsabile: “L’ho uccisa perché l’amavo”, è l’auto assoluzione tipica riportata dalle cronache giornalistiche. Oppure la giustificazione della violenza come re-azione maschile causata da un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, da rivendicazioni andate troppo oltre, da atteggiamenti provocatori che hanno radicalizzato il conflitto portandolo alle estreme conseguenze. L’eterno ritornello della colpevolizzazione della vittima.
Dunque un conflitto in corso. Una guerra tra generi, come quella tra Otello e Desdemona, rappresentata sullo sfondo di una guerra in senso pieno, evocata dal suono degli allarmi, dalle divise, dalla rappresentazione della violenza. Entrambe sono forme istituzionalizzate di sopraffazione, vengono cioè presentate come necessarie e inevitabili, ma tutte e due svelano alla fine la loro inutilità. Lo scontro di fuori si conclude senza vincitori né vinti, lo scontro dentro le pareti della milonga termina con la morte, ovvero con la dimostrazione perentoria della fallacia e della transitorietà di ogni esperienza umana. Ancora un tangoed è l’ultimo, ammonisce giustamente il titolo, giocando ancora una volta con l’ambiguità.
La nostra cultura ha sviluppato una strana infatuazione per il concetto di primo. Il primo bacio, la prima teatrale, il primo a realizzare questa o quella cosa. Ma è forse l’idea di ultimo ad avere più spessore, poiché il sapore di quanto gustiamo alla fine ci accompagna verso il dopo, chiude un’esperienza e getta i semi per ciò che verrà poi. Piero Chiara, in Vedrò Singapore?, un delizioso romanzo che a dispetto del titolo è ambientato tra Trieste e il Friuli, ci ricorda che l’amore più bello non è il primo, spesso imperfetto e acerbo, bensì l’ultimo, quello scoperto nell’età matura, che chiude il cerchio, ricongiunge gli estremi e accompagna verso il momento in cui si spegneranno le luci.
Nella vita come come su un palcoscenico.