lunedì 25 novembre 2013

Recensione: Lezioni di tango raccontante da una principiante, di Anna Mallamo "manginobrioches"



Il tema dell’evoluzione personale, il faticoso evolversi da uno stato di inadeguatezza verso una perfezione grazie alla quale sarà finalmente possibile vedere risultati dell’impegno profuso, è un tema ricorrente in tutte le culture umane. Dal mito al cinema, dal materiale favolistico alla letteratura colta, il protagonista deve sempre affrontare una serie di prove, misurarsi con la sconfitta, affinare via via le proprie capacità fino alla risoluzione finale che apre ad un nuovo equilibrio finalmente stabile.
Angela Mallamo, in Lezioni di tango raccontante da una principiante, gioca abilmente con le convenzioni del genere proponendo la trasposizione letteraria della propria esperienza di ballerina alle prime armi. Il lettore è guidato così attraverso un campionario di momenti ed esperienze che sono stati familiari a chiunque: il doloroso confronto con i praticanti più abili, lo spazio della milonga con i suoi codici a volte crudeli, il rapporto con le proprie scarpe da ballo vissute come entità senzienti, vero e proprio topos della letteratura femminile sul tango ormai ampiamente esplorato. Se si limitasse a questo il libro sarebbe poca cosa, un esempio più che decoroso di letteratura autobiografica.
L’aspetto più interessante è invece il ribaltamento consapevole di quella struttura narrativa delineata all’inizio. La vicenda - per usare le stesse parole della Mallamo - è infatti quella di un “eterno principiantato”. Non c’è un lieto fine o almeno la prefigurazione di una nuova realtà, dove le angosce e i turbamenti saranno finalmente risolti in una visione serena, stabile e rassicurante, ma nemmeno una totale chiusura di ogni speranza in un nebuloso presente, dove si è condannati ad una sorta di autistica coazione a ripetere i medesimi errori.
Al contrario, proprio l’incertezza e il dubbio sono la condizione necessaria  per mantenere uno sguardo incantato sul mondo. Stupirsi di qualcosa, anche se non si è capaci ancora di riprodurla, non è forse potentemente vitale? Di cosa mai ci si potrebbe meravigliare, se tutto è ormai incasellato in un ordine prevedibile che non lascia spazio al nuovo?
Il messaggio viene proposto al lettore con una scrittura morbida e serena che si snoda delicatamente in una serie di brevi capitoletti dove la vita della principiante di tango viene trasposta in modo lirico, a tratti sognante. Molta della suggestione viene da un’ambientazione meridionale, spesso evocata da periodi attentamente costruiti: “un solo filo luccicante che attraversava tutta la notte”, “capriole nel cielo e scirocchi” oppure “un tango greco, straziante e con gli angoli avvolti nel ferro filato”. Descrizioni di ambienti, sapori, odori e situazioni che rimandano ad repertorio di carnalità mediterranee, che in qualche caso ricordano da vicino certi accostamenti di Battiato. Il testo si legge volentieri anche per il sottile citazionismo che allude con eleganza ai classici del liceo (i “vestimenti leggeri” di D’Annunzio) o strizza l’occhio ad un “dopobarba verde come una milonga”, con esplicita allusione alle canzoni di  Paolo Conte.

*        *       *

Ad un livello profondo, il messaggio proposto dal libro è quasi paradossale: amare teneramente i propri difetti e accudire con tepore materno i propri limiti non è solo possibile, ma addirittura doveroso. Se infatti la perfezione resta un ideale astratto e indifferenziato, condiviso a livello sociale, sono proprio le nostre im-perfezioni a parlare compiutamente di noi, a dire esattamente chi siamo o chi non siamo, a dare corpo e sostanza al nostro stare al mondo assieme agli altri. Così l’autrice:

“Non troverete traccia, in queste pagine, delle “gallerie degli orrori tangueri”, i tipi da milonga, i bestiari che pure sono così divertenti a bordopista. E’ una scelta etica, equa e solidale: siamo tutti principianti irrimediabili […] è il mondo del tango a farci umani, troppo umani.”

Se la scelta di misurarsi con chi sta più in alto è di solito la premessa di corrosive manifestazioni di invidia, il mettersi a confronto con chi si trova in una posizione inferiore induce per altro la superbia, il compiacimento di sé o la sterile tracotanza. La consapevolezza reciproca delle proprie manchevolezze disegna invece una maglia di legami orizzontali che ci solleva dall’angosciosa rincorsa di una perfezione che spesso esiste solo nella nostra testa, ma soprattutto libera dall’ingiunzione perentoria della felicità a tutti i costi, un velenoso tratto distintivo delle società moderne.
Il libro induce a considerare quanto vi sia di inautentico e disumano in ogni proposta che prometta di sradicare qualsiasi esperienza sgradevole dalla nostra vita, magari anche solo valutando con occhio più indulgente il famigerato “rosso badante”, allusione ad improbabili colorazioni di chiome altrui,  spesso usata con un senso di divertita superiorità. Un modo di dire che svela d’incanto la nostra insospettabile capacità di cogliere al volo la differenza tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che non si è, tra la realtà e le sue cesellate rappresentazioni che mettiamo in scena a nostro uso e consumo, illuminandoci per altro sulla loro ardua ricomposizione.

La soluzione, sembra dirci la Mallamo è un invito a considerare con occhi benigni questo scarto altrimenti insopportabile, trasformandolo in un fenomeno evolutivo. Ma tutto ciò passa attraverso una rivalutazione del termine ‘principiante’, spesso associato ad una sfera negativa: “roba da principianti!”, è infatti l’esclamazione tipica quando ci imbattiamo in qualcosa di impreciso, malfatto o dilettantesco, lontano da uno standard soddisfacente.
Ma principiante, in senso strettamente etimologico, è esattamente chi principia, chi da inizio a qualcosa che prima non esisteva. Proprio il momento dell’inizio porta con sé nuovi mondi, apre molteplici futuri e rende possibile il  dispiegamento di potenzialità non ancora attuate. L’essere agli inizi di qualcosa ha dunque una promessa di futuro e porta con sé una speranza gentile di vita da compiersi. Direste voi che una gemma di marzo è solo una rosa principiante?

Cosa è piaciuto:

  •  fine e innovativa capacità di analisi
  • qualità stilistica e raffinatezza espressiva
  • efficace ribaltamento dei meccanismi narrativi consueti

   
Cosa non è piaciuto:
  •      nulla


Il giudizio in una riga: raffinata ed elegante trasposizione di un’esperienza autobiografica, ricca di riflessioni stimolanti.

Scheda completa: Lezioni di tango : raccontate da una principiante / Anna Lammamo "manginobrioches". - Reggio Calabria : Città del sole, 2010. - 95 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-7351-395-7 Euro 12,00

sabato 9 novembre 2013

Recensione: Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo



A quell'epoca -  lo ricordo ancora vividamente - ero capace di ballare utilizzando solo la sciatta versione di un improbabile abbraccio largo, da poco appreso a lezione. Ma una sera fui gratificato per la prima volta da un contatto che iniziava dalle tempie e sprofondava verso il torace per poi dissolversi in qualche zona imprecisa all’altezza delle anche. Era una forma inedita di gradimento senza riserve oppure una modalità di ballo che prima non avevo mai sperimentato? Lo sguardo carezzevole di lei nasceva della sostanza immateriale della danza, oppure da un’altra, ben più solida e corporea?
Feci così conoscenza con uno degli aspetti più insidiosi della pratica sociale del tango: l’ambivalenza. Gesti, situazioni e rapporti tra esseri umani non hanno un significato stabilito, bensì vivono di una natura sfuggente ed elusiva, si prestano cioè a venir letti e interpretati in modo del tutto diverso dalla loro intenzione originale. Questo è proprio uno dei meccanismi tipici della gelosia, dove una situazione del tutto normale viene vissuta come se possedesse un valore diverso, il che diventa la premessa per una grande quantità di sofferenza inflitta a se stessi e agli altri.
Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo è la versione con l’adattamento e la regia di Massimo Navone (produzione Tieffe/MaMiMò) andata in scena al teatro Giovanni da Udine il 5 novembre 2013 nell’ambito della rassegna Crossover-Teatro Arti in Scena.
Il dramma viene trasportato in un’ambientazione sudamericana degli anni quaranta, all’interno di una milonga, il Sagittario, sfondo ideale per una vicenda di potere, manipolazione e di cupe ossessioni che trova nell’ambiente del tango la sua cornice ideale. La danza non è un semplice abbellimento esteriore ma agisce come un amplificatore di emozioni, ingigantisce gli eventi, li riveste di un nuovo significato. Il contatto dei corpi, gli sguardi, i gesti e in genere tutte le ambiguità della comunicazione non verbale sono qui il carburante della gelosia, il mostro dagli occhi verdi che esploderà nel drammatico finale.
L’auesto adattamento vale dunque come ennesima conferma della vitalità di questa danza, la cui forza specifica non sta tanto nella capacità di restare sé stessa, fedele alle sue origini, bensì nell’attitudine a generare costantemente significati nuovi entrando in relazione con fenomeni culturali anche diversissimi, generando ibridazioni, messaggi inediti perlopiù non compresi nell’idea originale.
Molto efficace la scenografia, in linea con il gusto moderno di proporre ambientazioni essenziali, ma senza cadere in un minimalismo troppo spinto. Gradevole il registro cromatico tutto giocato sul toni del piombo e del nocciola, assai suggestivo nel creare una vivida suggestione d’ambiente.

  
Gli stessi colori vengono ripresi dalle divise dei protagonisti maschili con un’ involontaria strizzata d’occhio all’Hamlet di Kennet Branagh (1996), dove invece le uniformi impeccabili giocate sui toni scuri rimandano ad un’efficienza nordica, astratta e impersonale.



Qui  invece il color cachi e le fogge cadenti evocano un’humedad sudamericana, qualcosa di sbracato e di liso che vedremmo bene addosso al colonnello Aureliano Buendia. Come in una sperduta Macondo, l’azione si svolge in un’isola, circondata da uno spazio ostile dove la presenza del nemico è rivelata da molteplici e sottili allusioni. La situazione rimanda ad un topos della letteratura d’armi ovvero la contrapposizione tra uno spazio esterno, territorio della sopraffazione e della morte, e un ambiente chiuso e relativamente protetto dove la musica, il canto o in generale qualche forma di espressione artistica consente di entrare in contatto con una dimensione umana temporaneamente smarrita. Tra i tanti esempi un delicato frammento di Umberto Saba, tratto dal Teatro degli Artigianelli:

[…]
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il canone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Anche al Sagittario è tutto un trasmigrare di bottiglie e di bicchieri, ma qui l’allusione va alle tante letras di tango dove l’alcool non è riposo e provvidenziale ottundimento dei sensi, ma veleno mortale che acuisce una pena, la rende viva e presente. 
Tutto lo spettacolo è giocato del resto su una violazione dei codici più o meno scoperta. Bella la scelta di far partecipare come ballerini gli appassionati di tango del locale circolo Arci Zoo (pienamenti convincenti in un ruolo certo non facile) come pure l’invito a danzare rivolto al pubblico nell’intervallo. Sono due proposte che erodono i tradizionali confini tra professionisti e dilettanti della scena, come pure quelli tra spettatori e pubblico. Ma non va dimenticata la commistione tra brani del repertorio tradizionale e sonorità elettroniche firmate da orchestre contemporanee, come pure gli stessi movimenti degli attori sulla scena. Questi spesso riprendono gli stilemi delle esibizioni da palcoscenico, una situazione dove i ballerini professionisti giocano regolarmente con l’attrazione e la repulsione dei corpi.

Su questo aspetto è opportuno spendere qualche parola in più. Spesso ci si compiace di descrivere la relazione d’abbraccio come una accoglienza generosa dell’altro, ma in due esseri umani che ballano c’è anche molto di lotta, di conquista dello spazio, di forza.

 
Il confine tra due corpi che lottano e due corpi che si abbracciano è infatti permeabile e fluttuante: basta uno scarto minimo per passare dall’amore alla gelosia.
Ed è in questo punto che si misura tutta l’intelligenza della proposta di Navone. Da un lato una danza complessa basata su ruoli di genere netti che richiedono l’assunzione (ancorché temporanea) di modelli precisi e non negoziabili, di comportamenti funzionali e di attitudini precise senza i quali l’esperienza del ballo non è realizzabile e neppure pensabile. Dall’altro un’interpretazione della modernità secondo la quale gli uomini uccidono sì le donne, ma solo perché la messa in discussione dei rapporti tra i sessi gli ha lasciati disorientati e senza certezze. Essi sarebbero quindi le variabili impazzite della società, incapaci di adattarsi ai cambiamenti socioculturali, intenti a lanciare richieste di aiuto affinché cessi questo pericoloso processo di destabilizzazione dell’ordine naturale. Basta dunque dichiarare di essersi sbagliati e tornare al punto di partenza.
E ancora riecheggiano le voci di quanti si preoccupano di ricondurre il delitto passionale ad una forma di amore portato all’eccesso, afflitto da una sorta di dismisura patologica della quale il maschio si sente in genere irresponsabile: “L’ho uccisa perché l’amavo”, è l’auto assoluzione tipica riportata dalle cronache giornalistiche. Oppure la giustificazione della violenza come re-azione maschile causata da un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, da rivendicazioni andate troppo oltre, da atteggiamenti provocatori che hanno radicalizzato il conflitto portandolo alle estreme conseguenze. L’eterno ritornello della colpevolizzazione della vittima.
Dunque un conflitto in corso. Una guerra tra generi, come quella tra Otello e Desdemona, rappresentata sullo sfondo di una guerra in senso pieno, evocata dal suono degli allarmi, dalle divise, dalla rappresentazione della violenza. Entrambe sono forme istituzionalizzate di sopraffazione, vengono cioè presentate come necessarie e inevitabili, ma tutte e due svelano alla fine la loro inutilità. Lo scontro di fuori si conclude senza vincitori né vinti, lo scontro dentro le pareti della milonga termina con la morte, ovvero con la dimostrazione perentoria della fallacia e della transitorietà di ogni esperienza umana. Ancora un tangoed è l’ultimo, ammonisce giustamente il titolo, giocando ancora una volta con l’ambiguità.
La nostra cultura ha sviluppato una strana infatuazione per il concetto di primo. Il primo bacio, la prima teatrale, il primo a realizzare questa o quella cosa. Ma è forse l’idea di ultimo ad avere più spessore, poiché il sapore di quanto gustiamo alla fine ci accompagna verso il dopo, chiude un’esperienza e getta i semi per ciò che verrà poi. Piero Chiara, in Vedrò Singapore?, un delizioso romanzo che a dispetto del titolo è ambientato tra Trieste e il Friuli, ci ricorda che l’amore più bello non è il primo, spesso imperfetto e acerbo, bensì l’ultimo, quello scoperto nell’età matura, che chiude il cerchio, ricongiunge gli estremi e accompagna verso il momento in cui si spegneranno le luci.
Nella vita come come su un palcoscenico.

domenica 29 settembre 2013

Milonga La imperial al Planet fun di Zoppola (PN)


Atmosfera da grande evento ieri sera per la prima edizione della milonga La imperial al Planet fun di Zoppola (PN), una nuovissima struttura per l’intrattenimento di oltre 4000 metri quadri che offre sala bingo, spazi per i giocatori di slot machine, cabaret, ristorante e lounge bar.
 

La milonga è stata ambientata nella Event hall - una sala dalle dimensioni a dir poco imponenti - ed ha visto la firma del Maestro Antonio Napolitano, apprezzato insegnante attivo a Pordenone. Elementi centrali della serata sono stati la musica dal vivo con l’orchestra Tango Pichuco, che ha proposto un repertorio particolarmente azzeccato e di grande ballabilità, nonché l’acclamata esibizione della coppia Sebastian Zanchec e Malvina Gili, preceduta da quella, non meno apprezzabile sebbene di tono diverso, che è stata offerta da Antonio Napoletano e dalla sua partner Cinzia Pozzoli. DJ Gibo alla consolle.
Grande affluenza di pubblico con ballerini da tutte le province limitrofe, compresa qualche presenza dal vicino Veneto. Parterre delle grandi occasioni che ha proposto alcuni esempi non comuni di eleganza e buon gusto femminile nell’abbigliamento.
All’altezza l’impianto audio e pista assolutamente senza pecche: una superficie unica in marmo probabilmente ben al di là di 500 metri quadri, dimensione del tutto eccezionale che ha permesso a moltissime coppie di girare senza eccessive preoccupazioni. Notevole anche l’impianto di climatizzazione che ha garantito condizioni eccellenti nonostante l’affollamento.
Resta complessivamente gradevole anche il giudizio sull’ambiente. L’allestimento degli spazi, pur enfatizzando una certa idea di spettacolarità, mantiene un’apprezzabile misura, tanto più meritoria  se si ricorda come spesso gli ambienti di questo tipo siano intonati ad un gusto nefando che qui per fortuna viene evitato. All'ingrosso, la sensazione complessiva è quella di ballare negli spazi di una nave da crocera dei nostri tempi.

Un elemento decisamente anomalo è la gratuità, fattore che diventa del tutto eccezionale se soltanto si riflette sulla presenza della musica dal vivo o il coinvolgimento di una coppia famosa. L’aspetto è tanto più rilevante se si ricorda come il ‘costo zero’ comprenda anche i vari servizi accessori e non vi siano pertanto i famigerati oneri nascosti: parcheggio, guardaroba e prenotazione non costano un Euro mentre le consumazioni hanno prezzi assolutamente in linea con l’esterno, altro elemento notevole se solo si pensa a tutte le volte in cui il prezzo del servizio viene semplicemente incorporato nel listino del bar.
Antonio Napoletano, in un applaudito intervento, ha anzi dichiarato che la formula rimarrà invariata: ingresso sempre gratuito per tutti ogni sabato, anche quando è previsto l’intervento di un musicalizador di caratura internazionale, l’esibizione di una coppia famosa o la performance di un orchestra dal vivo. Affermazioni che devono aver creato più di qualche sussulto agli organizzatori di milongas nostrane, molti dei quali presenti in sala, e creato non poco subbuglio al mondo tanghero del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, alle prese con una novità che non ha precedenti negli ultimi anni.
Non c’è dubbio che il nostro abbia individuato una possibilità assai interessante e abbia sfruttato con acume l’impressionante ‘potenza di fuoco’ che gli viene da un partner del calibro del Planet fun. Egli ha dato prova di tempismo e fiuto non comuni, grande talento di organizzatore assieme ad una meritoria attitudine a percorrere strade nuove. Il grande successo di ieri sera è il giusto premio per un' iniziativa riuscitissima e sono stati in molti ad esprimere il proprio incondizionato apprezzamento.
Occorrerà invece vedere se condizioni così allettanti saranno mantenute come promesso per tutti gli appuntamenti futuri o se invece la politica del prezzo verrà ridiscussa dopo qualche tempo. Non si vuole essere diffidenti per partito preso, ma l'esperienza degli ultimi anni ci purtroppo abituato a servizi offerti inizialmente a condizioni vantaggiosissime (ad esempio nei settori dell'intrattenimento, della telefonia, delle credito, dalle assicurazioni ecc.) che scivolano poi verso condizioni assai meno buone una volta che l'impresa ha consolidato la base di clienti.

Caratteristica probabilmente unica della milonga è la contiguità con altre settori della struttura: succede così che i ballerini di tango costituiscano uno spettacolo involontario a beneficio di quanti frequentano la sala bingo, il cabaret o le slot, oppure capita di assistere al passaggio delle più canoniche ragazze-immagine dirette verso altri ambienti del locale, anche se ammetto che il sostantivo ‘locale’ sembra riduttivo per un ambiente connotato da uno scoperto gigantismo in cui capita di assistere a situazioni decisamente inconsuete per il tanghero medio. Inevitabile quindi che le dimensioni siano fonte di una certa dispersione e che si senta la mancanza di quella calda e raccolta intimità che è spesso la cifra delle milonghe più riuscite.
Di certo non sono mancate le distrazioni. Dalla folla di monitor sospesi sopra la pista fino al passaggio regolare delle artiste che si spostavano dai camerini verso la zona cabaret: una pattuglia di ventenni agghindate di piume, catafratte in fantasiosi costumi di taglio barocco oppure strizzate in corsetti stringivita di cuoio.

 Al di là di queste notazioni di colore, occorre riconoscere che le milonghe di casa nostra nascono dinorma dallo slancio generoso di qualche gruppetto di appassionati e vivono perlopiù una dimensione tipicamente informale, da artigianato dell’intrattenimento, spesso su base eminentemente volontaristica. C’è chi si presta a controllare gli ingressi, quello o quella che dedica qualche ora del suo tempo occupandosi di snack e bevande, chi accudisce la musica e così via. Magari altri hanno portato la bottiglia di vino del nonno o il dolce fatto in casa, in un’ atmosfera che – specie nei posti più piccoli – finisce talvolta per sfumare in un’inconsapevole aria domestica.
Per quanti abbiano familiarità con questo genere di situazioni il contrasto è stato probabilmente quasi traumatico: La imperial sta ad una comune milonga nostrana come Conan il barbaro sta a Don Lurio. Questa novità rimescola profondamente un contesto ormai sedimentato e pone un elemento nuovo con il quale gli organizzatori di eventi dovranno necessariamente fare i conti poiché questa inedita partnership sarà un elemento destinato a rimescolare le acque. Non è forse azzardato pensare che sulla scena locale del tango si sia affacciata una novità paragonabile a quanto successe nel mondo di internet agli inizi degli anni novanta, dove l’ingresso di grossi provider aggressivi rese d’improvviso gratuiti una serie di servizi che l’utente era prima abituato a pagare: dalla connettività, alla posta elettronica, fino allo spazio sul web. Chi era più disposto a sborsare quattrini per avere un indirizzo e-mail, quando Libero lo dava gratis a tutti?

Un’intelligente massima del web ricorda che se visitando un sito non si riesce a capire quale sia il bene o il servizio venga offerto, allora ad essere messi in vendita siamo proprio noi visitatori, perché ad esempio ci viene proposta della pubblicità attentamente mirata oppure – come accade regolarmente – perché i dati della navigazione sono venduti a chi si occupa di marketing telematico.
Gli economisti ricordano infatti che non esistono pasti gratis ed anche solo il modesto buon senso della massaia suggerisce che alla fine qualcuno dovrà pur pagare le fatture. Sul mecenatismo disinteressato del Planet fun pare dunque lecito avanzare qualche educata perplessità ed è facile intuire che il management della struttura debba aver fatto assai bene i suoi conti. Chi offre qualcosa di gratuito - sostenendo spese che è facile immaginare ingentissime - agisce in genere in un orizzonte più ampio. Vuoi perché cerca di entrare in contatto con una potenziale clientela a cui proporre successivamente dell’altro, vuoi perché un fondamentale assioma del marketing ricorda che prima si creano e si rafforzano inediti bisogni umani e poi si offrono quei servizi a pagamento destinati a soddisfare i nuovi desideri abilmente indotti.
Dal mio personalissimo punto di vista (ma è una notazione molto soggettiva, che va presa con beneficio del dubbio) mi pare che l’elemento debole di un’iniziativa per altri aspetti straordinaria sia proprio l’aver incrinato uno dei piaceri più forti dell’andare a milonga, ovvero la creazione di un rapporto sereno con la realtà, in un ambiente raccolto e protetto, costruendo relazioni autentiche e disinteressate.
Confesso che per qualche istante non mi sono più sentito una persona che frequenta un posto con lo scopo di trarre piacere da una pratica che si legittima in se stessa e non presuppone nessun altro obiettivo che il piacere condiviso. La sensazione era invece quella di essere stato trasformato in un elemento anonimo inserito entro un meccanismo che agisce secondo scopi e logiche che vanno al di là di me stesso, in ogni caso impossibili da governare: lo spiegamento di telecamere, discrete ma ben visibili come accade nelle case da gioco e nelle banche, la presenza visibilissima di personale addetto alla sicurezza con tanto di auricolare di prammatica ed infine – facile immaginarlo – una sala appartata nella quale il personale osserva coscienzioso una parete tappezzata di monitor. Non quindi soggetto, bensì oggetto.
Qui è conveniente sospendere il giudizio, lasciando ad ognuno la possibilità di formarsi la propria opinione personale. Solo il tempo dirà se è stato finalmente trovato una sorta di Santo Graal della milonga, ovvero un inedito modello gestionale che permetta di saltare a più pari il problema dei costi di gestione offrendo benefici illimitati per tutti a costo zero, o se invece stiamo andando verso qualcosa che è ancora prematuro delineare.

giovedì 19 settembre 2013

Recensione: Dust tango - Polvere di Tango

E’ stato pubblicato in questi giorni sul canale Youtube studioresetprojecsrl il video Dust tango - Polvere di Tango interpretato da  Matteo e Ludovica Antonietti per la regia di Cryman. Il clip è disponibile in due montaggi, uno lungo (3:58) ed uno breve (1:05), quest’ultimo probabilmente superiore per concisione e ritmo narrativo.



Si tratta di una realizzazione decisamente interessante, apprezzabile non solo per la qualità generale ma anche per l’incorporazione di elementi originali. Il video si apre con un’introduzione, girata esclusivamente in bianco e nero ed abilmente sottolineata da un delicato passaggio musicale, mentre nella parte centrale il tango rimane protagonista. Interessante l’uso di un brano che non appartiene al repertorio classico per accompagnare la performance: è il famoso Tango of Roxanne (Ewan McGregor, Jose Feliciano, Jacek Koman) dal musical Moulin Rouge!, qui proposto in una non comune quanto efficace versione strumentale. Il risultato è molto felice e mostra le possibilità espressive ed artistiche offerte da musiche anche piuttosto lontane alla tradizione, un argomento sul quale ci si è soffermati altre volte in questo stesso blog.
La conclusione del filmato riprende invece gli stilemi già visti in apertura.

Il clip è girato con un sicuro dominio delle tecnica di ripresa mentre il montaggio dimostra padronanza del linguaggio filmico, con una netta prevalenza degli scelte espressive su quelle strettamente documentarie. Si vedano ad esempio la mescolanza delle sequenze a colori con altre in bianco e nero oppure l’alternanza di illuminazioni contrastate con altre molto più morbide. Di particolare effetto alcune scene con luci ed ombre nettissime, rese ancora più efficaci dalla sagoma delle grate alle finestre: un elemento estraneo, perturbante, notevole per il sottile gioco di rimandi ed allusioni. Danza come prigionia imposta da una passione totalizzante oppure evasione e aspirazione all’infinito?
Di indubbio effetto la location. Il video è ambientato negli ambienti signorili di una costruzione storica, spazi un tempo connotati da un’eleganza barocca, ma ora fatiscenti ed abbandonati al degrado. Ed è proprio la onnipresente polvere che esprime il trascorrere del tempo in modo delicato quanto indiscutibile, con una trasparente allusione al “quia pulvis es et in pulverem reverteris” (Gen. 3,19).
Un elemento di grande interesse è infatti il contrasto esplicito tra degli spazi in rovina - che rimandano in modo esplicito alla morte -  e la fresca vitalità espressa della coppia che danza. La suggestione in questi casi è duplice. Sul piano della danza in senso stretto, poiché la fissità immutabile non appartiene alla vita, che è invece potenza creatrice di movimento e musica; a livello di semplici suggestioni visive, per il vigoroso contrasto tra le superfici rese scabre e tormentate dello scorrere del tempo e la seducente freschezza dei due artisti, in particolar la levigata bellezza di Ludovica Antonietti, sulla quale l’obiettivo indugia più volte. Un espediente quest’ultimo largamente sfruttato dalla fotografia di moda.

Difficile sottrarsi alla sensazione che questo ed altri prodotti simili siano la versione attualizzata della vanitas, un tema largamente diffuso nella cultura visiva del XVII secolo giocato sul contrasto tra la rappresentazione del mondo – spesso colto nei suoi aspetti più freschi, vitali e seducenti – ed elementi simbolici che alludono invece al tema della caducità, della rovina, della trasformazione e dell’inpermanenza di tutte le cose.



Allegoria della vanità, Antonio de Pereda, c. 1634

Dunque una sorta di prototipo universale che viene manifestato di volta in volta in forme diverse usando i modelli espressivi di ciascuna epoca. Si realizza così una convergenza di significato fra le espressioni delle varie società umane verso alcuni motivi fondamentali che sono, in termini jungiani, avvicinabili a degli archetipi.

Non è quindi un caso che diversi degli elementi sin qui evidenziati si ritrovino anche in altri video contemporanei. Mi pare anzi che il recente Dust tango - Polvere di Tango sia accostabile a Tom Waits: Little drop of poison. Sensual Tango Video, realizzato dalla film-maker Caterina Ongaro.





Tratti comuni sono l’impiego di musica non canonica, l’ambientazione in uno spazio in disfacimento (che in questo caso specifico è propriamente un ambiente industriale dismesso) e l’enfasi sulla materia sciolta che fluttua liberamente nell’aria disegnando seducenti giochi di luce. La qualità di quest'ultima clip, che si segnala prima di tutto per la raffinata fotografia, è testimoniata da un numero di visualizzazioni decisamente elevato per un prodotto di nicchia (oltre 116.000 contatti a settembre 2013) e da un indiscusso apprezzamento di pubblico.

Un elemento nettamente originale di Dust tango - Polvere di Tango è invece il sonoro, il quale mantiene ed anzi enfatizza i rumori ambientali come ad esempio lo sfregamento delle suole sul pavimento. La scelta è senza dubbio originale poiché in genere la post-produzione tende a sostituire integralmente la traccia audio originale con musiche registrate in studio. I suoni raschianti si legano invece bene con le inquadrature polverose e sottolineano un’atmosfera aspra, ruvida. Rimandano ad un contesto istintivo, non mediato ed enfatizzano pertanto il contatto con la realtà. In questo caso il montaggio gioca su una duplice violazione delle aspettative: verso i movimenti stessi della danza – morbidissimi e fluidi - ma anche verso la stessa idea condivisa del tango, legata spesso ad atmosfere levigate e rarefatte.
A ciò si aggiunge il sottile contrasto tra il sentimento tragico del tempo, di cui si è ampiamente discusso sopra, e la fisicità perentoria della coppia che danza. Questo aspetto viene ulteriormente evidenziato dal respiro affaticato dei due ballerini con il quale si chiude la sequenza centrale, una sottolineatura morbidamente carnale, che rimanda alla materialità perentoria dei corpi, rappresentati come esseri umani che si abbracciano e trovano in questa relazione una nuova e diversa modalità d’essere.

lunedì 12 agosto 2013

Il tango di Ana Kolega

Ho ricevuto una graditissima cartolina con la riproduzione di Fragment ljeta IV, opera dell’artista croata Ana Kolega: la segnalo volentieri su queste pagine trattandosi di un lavoro apprezzabile per diversi aspetti.
Credo che l’elemento più rilevante del quadro sia la capacità di mescolare una sorta di primitivismo ingenuo con un’insospettabile raffinatezza espressiva. L’artista procede infatti con grande economia di mezzi raggiungendo un risultato che è solo apparentemente elementare, ma rivela per altro una sua nascosta forza.
La pittura dedicata al tango tende infatti alla stanca riproposizione di un gusto ormai divenuto di maniera, basato perlopiù sulla dimensione ineffabile del movimento, spesso ricorrendo allo sfumato, al mosso o all’indeterminatezza dei contorni.
In questo caso la resa delle figure appare di tipo completamente opposto. Masse nitide e solide, campiture uniformi di colore delimitate da un tratto nero rimandano invece alla cultura pop. Il gusto dell’essenzialità, il tratto mosso e spigliato dei contorni, la resa essenziale dei chiaroscuri nonché  l’impiego di tinte quasi piatte rivelano un insospettabile vicinanza con certi codici visivi che sono tipici del fumetto.
Altro fattore degno di nota è il buon equilibrio tra due possibilità opposte: per un verso, la rappresentazione idealizzata, levigata e lontana dalla realtà, dall'altro, il desiderio di ostentare gli aspetti più umani, carnali e terreni della danza, senza cioè mai nasconderne i lati più prosaici. Si intuiscono infatti le forme generose della donna di destra e l’aspetto legnoso, vagamente ossuto, dell’altra ballerina, ma la resa generale non ha nulla di sgradevole e la composizione generale rivela una sorprendente armonia pur nella sua apparente ingenuità.
Un secondo elemento di rottura è l’assenza di quelle atmosfere notturne, oscure e fumose che tanta parte hanno nell’immaginario collettivo del tango. Semmai una luce nitida e brillante, un chiarore quasi mattinale che provoca un senso di sorpresa e di spaesamento, ma soprattutto induce a ridiscutere le nostre aspettative sulla base di nuovi e diversi elementi di valutazione, come minino per la scoperta di quanto vi possa essere di astratto e convenzionale in quelle forme che a torto a ragione abbiamo arbitrariamente finito per considerare come canoniche. Se da un lato giudichiamo inplausibile un tango danzato alla piena luce del sole, dall’altro non possiamo che riconoscere come la sua immagine crepuscolare nasca dallo stratificarsi di convenzioni non meno arbitrarie.
La violazione delle aspettative legate alla danza sociale è anche l’elemento centrale di Singing Butler, celebre opera del pittore scozzese Jack Vettriano (Fife, 17 novembre 1951 - ).


Il fascino della pittura sta proprio nel sottile senso di assurdo, vagamente metafisico e surreale, che nasce dalla contemplazione di una scena nitidamente delineata nei minimi dettagli, ma di cui per altro non riusciamo ad afferrare il senso. Un elemento di spaesamento è anche qui il contrasto l’ambientazione aperta, dominata da un’intensa luce marina, e l’idea preconcetta che vorrebbe scene di questo genere al chiuso, perlopiù descritte con toni morbidi e indistinti.

giovedì 20 giugno 2013

A milonga col cilicio


 Sii pura è un testo di educazione cattolica per ragazze scritto da Laura Bianchini, edito per la prima volta nel 1941 e successivamente ristampato fin quasi la metà degli anni cinquanta. L’intransigente rigorismo del volumetto è l’espressione di un sentire ormai non più attuale, ed è anzi lecito domandarsi quanto simili orientamenti fossero davvero condivisi nella società del tempo, giacché un sistema strutturato di divieti è di solito il modo più immediato per capire cosa la gente faccia di solito.
Riporto qui il capitolo dedicato al ballo trattandosi di pagine che si prestano a diverse considerazioni. Prima di tutto mostrano chiaramente come i giudizi morali siano per lo stessa natura largamente storicizzati, in quanto essi variano radicalmente a seconda delle diverse epoche. Appare inoltre sintomatico il completo ribaltamento di valori: gli aspetti che l’autrice attacca con più veemenza risultano oggi non soltanto tranquillamente accettati, ma sono anzi ritenuti modalità espressive essenziali per il nostro benessere. Pasti pensare alla disinvoltura e alla naturalezza, al valore delle relazioni sociali, alla gioia dell’abbandono spontaneo.
Interessante infine l’accenno alle donne che “hanno fatto dei segni con gli occhi”. Una forma di mirada ante litteram?


Ballo. Invenzione diabolica questa, che non merita l'appellativo di divertimento ma tomba della purezza, incentivo di superbia, di gelosia, di vanità... Hanno bel ripetere le giovani spensierate che “nel ballo non c'è nulla di male”. Con quale convinzione esse lo dicono? Non sarebbero certamente disposte a ripetere ciò in punto di morte! Ballo non è soltanto un male ma una sorgente di male e di peccati.
S. Gemma Galgani, bambina, disdegnava perfino d'essere abbracciata è baciata da suo padre. Tutte le volte ch'egli tentava di stringere a sé il suo tesoro: - Babbo, non toccare! - diceva ella con bel garbo. - Ma son tuo padre! ... -Sì, sì, ma io non voglio esser toccata da nessuno! Esagerazioni? Benedette le esagerazioni che formano i santi!
-Ma si è sempre ballato! -dicono alcune. Purtroppo! Anche il delitto, il suicidio, il furto, il vizio si ebbero in tutti i secoli eppure mai nessuno li riputò atti onesti. Il ballo poi, in particolare, è stato sempre giudicato severamente, perfino dai pagani. A Roma, dire di una giovane che era una “brava ballerina” equivaleva a darle un titolo d'infamia. Interrogato un saggio filosofo quale differenza passasse tra un pazzo e un uomo che balla, rispose: “Il pazzo è tale per sempre, il ballerino finché balla”. “Non ti trovare con una danzatrice - avverte lo Spirito Santo - e guardati dal porgere orecchio alle parole di lei” (Eccl. 9, 4). E altrove: “ Le figliole di Sion si sono invaghite...; hanno fatto dei segni con gli occhi e dei gesti con le mani; si sono messe sull’aria della galanteria coi loro passi studiati e composti; perciò il Signore le coprirà di confusione e di vergogna (Is. 3, 16). I Santi hanno parole e similitudini terribili per questo divertimento. San Carlo diceva che “i balli sono come un cerchio di cui il demonio è il centro e gli uomini senza pudore la corte. Quasi mai si balla senza peccare. L'affermare il contrario è una menzogna, un’illusione, un inganno”. 


Generalmente i balli si fanno di notte quasi ad indicare le tenebre in cui piombano le anime; e, se fatti di giorno, indicano la sfacciataggine di persone moralmente abbassate. I terribili castighi con cui Dio punisce il ballo, dovrebbero far tremare.. In un paese del Molise, qualche anno fa, sul più bello di una danza, sprofondò improvvisamente il pavimento. Tutti precipitarono nel piano inferiore riportando ferite non lievi. Fu tale il terrore di quei paesani che tra di loro non si parlò più di ballo.
E se si fosse in qualche modo obbligate ad andarvi? - E’ raro. E se pur vi fossero ancora dei genitori così ciechi da trascinare le proprie figliole in un covo di serpenti, è necessario dapprima resistere con tutte le forze eppoi cercar tare il portamento di Santa Rosa da Lima. Bella, d'una bellezza celestiale, angelica nel portamento, fresca e sorridente come i fiori della sua terra, Rosa aveva consacrata a Dio tutta la sua vita. Ella trovava diletto nel cantare, con la sua voce armoniosa, inni di lode al Creatore. Amava il suo giardino, la capannuccia che vi aveva fabbricata, e dove trascorreva le sue ore di Paradiso. Godeva gettare in alto i bianchi petali di rose il loro profumo giungesse fino a Dio. I petali però, non ricadevano sulla terra: restavano miracolosamente sospesi in aria, formandovi una croce sfolgorante. La mamma di Rosa invece era ambiziosa. Bramava che la figliuola partecipasse a qualche divertimento; che tutta la città conoscesse il fiore di bellezza ch’ella possedeva. Un giorno di carnevale, la mamma decise piegare l'angelica figliuola ai suoi desideri. L'avvisò pertanto che, giunta la sera, l'avrebbe condotta, suo malgrado, al ballo pubblico. Rosa comprese ch’era impossibile resistere e preparò l'abbigliamento, braccialetti forniti internamente di punte alle braccia e alle gambe; pungente alla vita; corona di spine in testa. Sopra, i vestiti più sfarzosi di Lima, il cappello più elegante, i monili più preziosi. Così Rosa comparve, con visibile orgoglio della madre, in quella sala abbagliante di luce. Sedette in uno dei posti più distinti. Il ballo incominciò ma Rosa, con gli occhi bassi, andava meditando la passione di Gesù Cristo. Improvvisamente comparvero sulla sua fronte bianchissima perle di rosso scarlatto: erano vive gocce di sangue che dalla testa scendevano poco a poco a infiorare il suo viso liliale. Rosa, immersa nella contemplazione, non se ne accorgeva. Ben se ne avvidero, con grande meraviglia, i circostanti e la mamma che inutilmente tentava far sparire quei segni che parlavano di dolore. Le gocce di sangue continuavano a discendere finché, l'ambiziosa madre, fu costretta ad accompagnare Rosa fuori di quel luogo che non era fatto per lei. 
Non tutte le giovani, come Rosa, ritornano a casa dal ballo con l'innocenza nel cuore, anche se vi entrano senza cattiva intenzione o trascinate da mani scandalose. Così avvenne ad Anna Genoveffa di Bourdon. Ella, prima di quel fatale divertimento, era buona, pia, tanto che aveva deciso di farsi carmelitana. I genitori, che non la volevano monaca, cercarono di dissipare quelle che essi chiamavano superstizioni. La tolsero dal Collegio, e la gettarono in mezzo al mondo e continuamente la riprendevano perché non faceva abbastanza la disinvolta. Si cercò trascinarla anche al ballo. Anna Genoveffa resisté alquanto, poi cedette. Sotto le vesti nascose il cilicio ma, fondo al cuore, ella stessa godeva di poter fare bella figura. Entra nel ballo. Ben presto tutti gli occhi sono su lei. Molti esprimono la propria ammirazione per l'avvenenza della sua persona. Anna ne è orgogliosa, sorride ma - ohimè! -quando esce di non è più lei. Incomincia a far sua la vita di molte giovani infelici: mondo e Dio..., Dio e mondo. I rimorsi la straziano terribilmente. Così per anni. “ Finalmente un giorno - scrive ella stessa - mentre componevo una lettera, mi si sollevò velo dagli occhi. Vidi l'incanto della verità e si risvegliò in me quella fede ch'era come sepolta nel mio cuore. Io mi trovai come chi si sveglia da lungo sonno e si trova carico di catene e coperto di piaghe ...”
Effetto d'un primo ballo. Fortunata lei ch'ebbe la grazia di convertirsi e rivolgersi definitivamente a Dio. Quante giovani sventurate finiscono invece miseramente la vita a causa divertimento profano! 

sabato 8 giugno 2013

Milonga marketing



Le donne che frequentano una milonga si lamentano spesso della difficoltà di ottenere un invito da parte dei ballerini più abili e desiderati. Alcuni ricercatori sostengono che questi inconvenienti siano facilmente risolvibili, a patto di conoscere a fondo le più accreditate teorie di marketing:




Siete ad una milonga. Vedete un tipo interessante. Andate da lui e dite: “Sono bravissima”.
Questo è direct marketing.

Siete ad una milonga. Vedete un tipo interessante. Una vostra amica va da lui, vi indica e gli sussurra: “Quella li è bravissima”.
Questo è advertising.

Siete ad una milonga. Andate da un tipo interessante, vi fate dare il suo numero di telefono. La settimana dopo lo chiamate e gli dite “Pronto, ciao, andiamo a milonga?”.
Questo è telemarketing.

Siete ad una milonga. Vedete un tipo interessante. Andate da lui, vi dimostrate interessate alla sua squadra di calcio, gli chiedete che macchina preferisce, dite con gentilezza “Posso?” e gli rassettate amorevolmente il colletto della camicia. Dopo un po’ gli dite: “A proposito, lo sai che sono bravissima?”.
Queste sono le pubbliche relazioni.

Siete ad una milonga. Vedete un tipo interessante. Viene da voi e vi dice: “Ho sentito dire che sei bravissima”.
Questo è avere un brand riconoscibile.

Siete ad una milonga. Vedete un tipo interessante. Lo convincete ad invitare la vostra amica.
Questo è fare il rappresentante di commercio.

La vostra amica non lo soddisfa e lui viene ad invitarvi la tanda seguente.
Questa è assistenza tecnica.

Siete ad una milonga. Indossate una maglietta con su scritto “Se non mi inviti mordo”.
Questo è guerrilla marketing.

Siete per strada andando a milonga, quando vi rendete conto che nelle case attorno a voi ci potrebbero essere moltissimi fantastici ballerini. Così vi arrampicate sul tetto di un condominio, prendete un megafono e gridate: “Sono bravissima!”
Questo è spam.

domenica 6 gennaio 2013

Recensione: Tango puro. Manuale di tango argentino, di Alejandro Angelica, Marco Aleotti, Lorenzo Ceva Valla.

Un consolidato adagio vuole che il significato del libro emerga sempre da una relazione a due. Dal rapporto a distanza che si crea fra l’autore, il quale vi infonde sempre qualcosa di suo, ed il lettore, che invece lo recepisce e lo interpreta sulla base della sua sensibilità e della sua esperienza. Questo è tanto più vero nei testi didattici, ovvero quelle pubblicazioni che nascono con lo scopo preciso di trasmettere un’esperienza in termini comunicabili e riproducibili. Se però le scienze e le tecniche possiedono per definizione linguaggi propri altamente formalizzati (i simboli chimici piuttosto che le norme grafiche del disegno tecnico, oppure i pittogrammi delle carte geografiche) non tutte le attività artistiche ed espressive possono contare su strumenti simili.
Ed è proprio nei manuali dedicati al ballo che il meccanismo comunicativo tra autore e lettore tende ad incagliarsi. Essi infatti scontano la mancanza di un linguaggio condivisibile che permetta di cogliere gli elementi essenziali al di là delle innumerevoli situazioni contingenti, esattamente come il simbolo di una stazione di servizio su una carta stradale prescinde per definizione dalle possibili differenze tra l’uno o l’altro impianto, oppure, con parallelo più calzante, come il segno grafico “a” costituisce l’idea condivisa della prima lettera dell’alfabeto, che mille mani tracceranno sulla carta in mille modi diversi, tanti quanti sono calligrafie individuali.
Si comprende bene come i tentativi di superare questo ostacolo costruendo una notazione della danza in forma grafica siano stati numerosissimi, ad esempio servendosi di simboli astratti, rappresentazioni figurative, tracce del movimento nello spazio, rappresentazioni spaziali, metodi numerici, notazioni di tipo musicale, segni grafici, lettere e parole. La caratteristica comune di questi approcci è in genere la generalità e l’astrattezza, ovvero la codifica di quegli elementi che possono essere pensati comuni a tutta la coreutica, prescindendo dalle peculiarità che pur distinguono una danza dall’altra. Certi codici vanno ancora oltre presentandosi espressamente come cinetografie, ovvero linguaggi utilizzabili per rappresentare qualsiasi tipo di movimento, ad esempio anche quelli di un artigiano, prescindendo da ogni classificazione a priori dei loro intenti o delle circostanze in cui sono prodotti.
Questa premessa rende evidente da subito il principale aspetto originale di Tango puro, lavoro a più mani di Alejandro Angelica, Marco Aleotti  e Lorenzo Ceva Valla. L’aspetto più rilevante dell’opera, su cui sarà bene concentrarsi, è infatti la presentazione di un sistema specifico di notazione pensato espressamente per questa danza. Infatti, tanto i sistemi precedentemente ricordati sono generali, tanto questo codice è specifico, ovvero si focalizza su concetti (in primis quello di relazione) che appartengono al tango in senso specifico, formalizzati nel modo più aderente possibile.
Il metodo - per chi sia abituato alle descrizioni testuali o agli schemi che raffigurano il movimento della coppia nello spazio - rischia di apparire a prima vista inutilmente astruso, freddo e cervellotico. Il consiglio è quello di mettere da parte ogni preconcetto, cercando invece di accostarsi alla proposta con una certa dose di umiltà e di apertura mentale. Superata la prima fase di disorientamento emergono ulteriori pregi del sistema: l’attenzione con cui vengono colti e descritti quegli aspetti che sono propri del tango in senso specifico e non si ritrovano in altre danze di coppia; l’aver saggiamente evitato un’inutile dispersione in dettagli irrilevanti mantenendo la focalizzazione sull’essenziale ed infine la possibilità di essere perfettamente utilizzabile già con un numero ridottissimo di simboli introducendone di nuovi man mano che se ne presenta la necessità. Una volta preso confidenza con le convenzioni, risulta semplice non solo leggere il codice, ovvero tradurlo in movimento, ma persino compiere il passaggio opposto: scrivere una sequenza vista con i propri occhi è assai meno difficile di quanto possa sembrare. Il principale merito del codice sembra dunque essere la sua effabilità, l’attitudine ad essere applicato ad una molteplicità di situazioni, anche diverse da quelle proposte nel testo.
Il sistema di segni si basa infatti sulla definizione di un ridotto numero di elementi non ulteriormente scomponibili, quali aperture laterali, passi, cambi di peso e simili, impaginati in una struttura a caselle nettamente scandita dalle pulsazioni ritmiche della musica. Colonne separate ospitano i simboli dedicati al movimento dell’uomo, a quello della donna della donna, al tipo di spostamento dello spazio e alla relazione che intereccorre tra i ballerini. Il tutto si legge dal basso verso l’alto, dunque immaginando che l’uomo legga lo schema idealmente proiettato davanti a sé.



I segni più semplici, presentati al lettore all’inizio dell’apprendimento, corrispondono a movimenti e relazioni piuttosto elementari, che possono essere facilmente pensati come i costituenti elementari della danza (cambio peso, apertura ecc). Proseguendo nella trattazione si definiscono di volta in volta nuovi grafemi, ad esempio quelli che definiscono i vari tipi di boleos, dietro i quali si cela una quantità notevole di cognizioni e di riferimenti.
Sempre molto belle le foto esplicative, corredate di volta in volta dale notazioni del codice oppure da ben congegnati pittogrammi.



Saggiamente, gli autori non rivendicano diritti di primogenitura: né in senso assoluto, poiché i sistemi di notazione grafica della danza sono ormai numerosissimi, né in senso specifico, poiché è noto l’eterno principio che problemi simili tendono a produrre soluzioni simili in modo del tutto indipendente, magari a distanza di tempo. Essi paiono invece consapevoli dell’eterno dilemma per il quale quanto più si cerca di essere rigorosi tanto più si perde in comunicabilità e viceversa, tanto che la scelta di introdurre singoli simboli dietro i quali si cela una quantità notevole di cognizioni e di riferimenti obbedisce senz’altro ad un criterio di praticità. Tuttavia, sempre per restare in un modello interpretativo di tipo linguistico, il codice ha una struttura diversa dagli alfabeti occidentali moderni dove un insieme chiuso di poche decine di segni, corrispondenti ad altrettanti suoni, permettere di comunicare una quantità virtualmente illimitata di idee, senza bisogno di introdurre nuovi e più complessi simboli grafici man mano che si passa da concetti semplici a quelli più complessi.
Un aspetto potenzialmente problematico potrebbe quindi essere quindi la necessità di espandere la lista dei simboli per  introdurre altri e diversi segni grafici per rappresentare qui movimenti di cui il libro non parla, ma che compongono pur sempre il bagaglio del frequentatore delle milongas. E’ un limite non trascurabile che presuppone un’autorità unanimemente riconosciuta in grado di indirizzare l’opera di aggiornamento, controllo e valutazione oppure – in alternativa - di una collaborazione disinteressata e costruttiva tra pari. 


*     *     *

Il libro non si riduce ad un elenco di schede che descrivono movimenti, ma comprende una serie di capitoli aggiuntivi, tra cui una sezione musicale, una galleria fotografica e ed un’introduzione storica. Quest’ultima si allontana dal consueto elenco di nomi e date per tentare un percorso meno comune, ovvero collegare la storia della danza con quelle trasformazioni sociali e culturali che hanno contribuito a determinarne l’evoluzione. La lettura è indubbiamente gradevole anche se gli esempi proposti al lettore non paiono avere lo stesso peso. In alcuni casi la connessione è semplice e piana, ad esempio quando movimenti più morbidi e scivolati sono messi in relazione con  l’abbandono progressivo dei cortili in favore di ambenti con un pavimento liscio. Altre volte i legami paiono un po’ cervellotici, come accade quando si vorrebbe mettere in relazione la forza di Coriolis al verso prevalente della danza nei due emisferi terrestri. In questo caso parrebbe doveroso suggerire maggior prudenza: la presunta influenza della forza sui fenomeni fisici a piccola scala, come il ben noto vortice che si forma negli scarichi, è un caso notorio di leggenda metropolitana basata su procedimenti pseudoscientifici. Immaginare un influsso sistemico sulle azioni umane, ovvero ipotizzare che essa possa manifestare effetti evidenti quando le forze che entrano in gioco nelle comuni attività quotidiane la sovrastano di diversi ordini di grandezza parrebbe un procedimento lambiccato e fuorviante. Peccato che la genericità dell’affermazione (“Secondo alcun studiosi”, p. 9) e la mancanza di bibliografia non permettano di saperne di più.
Assai più interessante - perlomeno a livello di mera suggestione - il rapporto tra il tango semplice e lineare delle origini ed una società in cui ogni individuo possedeva una collocazione definita e procedeva lungo un percorso esistenziale determinato da poche e semplici opzioni. Per altro, la multiforme imprevedibilità delle espressioni moderne farebbe il paio con un mondo avaro di certezze in cui l’unica sicurezza è il cambiamento continuo come pure l’eclissarsi di riferimenti solidi. Non è il caso di spendere altre parole poiché sul tango come metafora del postmoderno si è parlato a lungo su questo stesso blog, in particolare a proposito di Raffaella Passiatore e di Syusy Blady.
Indubbio elemento di qualità è la presenza di un CD-ROM interattivo. Il suo valore didattico è esaltato da un buon montaggio che sfrutta abilmente cambi di inquadratura, riprese in dettaglio o sequenze rallentate, mentre opportune sottotitolature commentano i passaggi chiave senza essere mai invadenti.



Decisamente originale la scelta di un elegante bianco e nero: questo dettaglio, assieme all’ambientazione minimalista in ambienti spogli e disadorni, ammicca ai codici visivi di un classico del genere quale “Lezioni di tango”.
Senza pecche la grafica ed in genere tutta la realizzazione editoriale, di cui si intuisce la metodica elaborazione, anche dal punto di vista della presentazione formale.

*     *     *

La degustazione del vino prevede, tra le altre cose, la sua analisi olfattiva. Chi assaggia condivide impressioni sensoriali con altri appassionati cogliendo – poniamo – il profumo di vaniglia o quello di fieno tagliato. E’ chiaro che tutti i partecipanti devono aver già fatto esperienza di quel particolare sentore, poiché altrimenti non riuscirebbero a scambiarsi le loro impressioni e la comunicazione resterebbe opaca di significato. Questo genere di attività presuppone quindi una condizione di pre-scienza condivisa da tutti.
Tornando al libro, va osservato che anche i più semplici movimenti associati ad un simbolo sono ben lontani da essere unità minime di informazione. La semplice apertura laterale è qualcosa di estremamente più complesso rispetto al mero spostamento di un arto: presuppone infatti un controllo sulla postura dell’intero corpo, un saldo dominio dell’equilibrio, lo sviluppo di un’ azione allo stesso tempo consapevole e naturale, quelle caratteristiche che si ottengono solo dopo aver afferrato perlomeno un concetto generale del tango e delle sue strutture interne.
Si noti come sia estremamente difficile che due persone condividano la stessa nozione esperienziale di “consapevolezza” o “intenzione” di movimento (e che per altro le rispettive definizioni a priori risultano assai problematiche) mentre una buona fetta dell’umanità non solo riesce a formarsi un’idea piuttosto chiara di cosa sia l’odore di vaniglia, ma inoltre può essere ragionevolmente certa che la propria sensazione olfattiva sia sovrapponibile a quella di un’altra persona. La conclusione è quella di un’insidiosa circolarità: l’esatta comprensione degli elementi fondanti parrebbe possibile solo dopo aver afferrato la danza nella suo aspetto di movimento corporeo globale, il che vuol dire che i presupposti per utilizzare il codice sono proprio i risultati che il codice stesso si propone di fornire. Detto altrimenti, con sottile ironia, la condizione necessaria per utilizzare con profitto il testo sarebbe la presenza fisica di un maestro capace, ovvero proprio quello specifico elemento che il manuale dichiara implicitamente - con la propria semplice esistenza – di essere non indispensabile.
Su un piano diverso, il sistema pare molto preciso ed efficace quando si tratta di descrivere gli aspetti quantitativi, ovvero il moto nello spazio, ma risulta assai più debole nel comunicare la qualità del movimento, che del resto è proprio quanto da  sostanza e corpo alla danza, ne costituisce la parte più ricca ed espressiva, quella cioè che fa la differenza tra un tango ben danzato ed una riproduzione meccanica di movimenti.
Le due obiezioni, così come formulate, parrebbero assai solide ma vanno collocate in un più ampio discorso. In primo luogo, le scienze umane sono piene di insidiose circolarità simili a quella appena presentata. Da un verso contempliamo un’opera d’arte cercandovi riflesse le caratteristiche dell’epoca in cui è stata  prodotta (andiamo cioè alla ricerca di serenità ed equilibrio in un quadro rinascimentale) dall’altro, collochiamo un oggetto in un orizzonte temporale preciso poiché manifesta certi tratti specifici e non altri, attribuendo ad esempio una tela all’espressionismo tedesco per via dei suoi colori violenti e dissonanti. Dunque cosa procede da cosa?
La difficoltà di cogliere con precisione le più sottili sfumature di significato è per altro comune a linguaggi di incredibile potenza: la parola scritta è un mezzo comunicativo di grande precisione semantica, che ha reso possibili la trasmissione delle idee più complesse. Nonostante ciò le esitazioni, le pause, l’intonazione, le inflessioni, la velocità e la scioltezza dell’eloquio sfuggono del tutto ai segni alfabetici e di interpunzione.  Detto per inciso, va inoltre osservato che una notazione troppo minuziosa toglierebbe a chi danza uno dei piaceri più grandi, ovvero la possibilità di arricchire con la propria personale sensibilità anche i movimenti più semplici, lasciandovi qualcosa che non appartiene a nessun altro. La soluzione pare del tutto persuasiva e nasconde probabilmente un lungo lavoro di affinamento.
Pare quindi che un merito non piccolo di Angelica, Aleotti  e Ceva Valla sia stato quello di portare a termine un lavoro così complesso senza lasciarsi spaventare troppo da antinomie che sono comunque irrisolvibili, ma anzi ponendosi nella posizione di chi vuole pur sempre offrire un contributo costruttivo nella consapevolezza che la sua azione non riuscirà mai ad esaurire ogni problema, ben sapendo cioè che rimarranno comunque territori inesplorati e spazi bianchi. La qualità di una nuova proposta si misura prima di tutto sulla sua capacità di fornire risposte a problemi precedentemente insoluti.
Se poi questo specifica proposta saprà effettivamente diffondersi e imporsi come linguaggio grafico condiviso del tango danzato, con lo stesso valore universale della notazione su pentagramma, sarà ovviamente solo il tempo a dirlo.
Ma glielo si può augurare di cuore.

Cosa è piaciuto:
  • pregio didattico
  • chiarezza espositiva
  • cura grafica e qualità editoriale

Cosa non è piaciuto:
  • nulla
Il giudizio in una riga: un prodotto di qualità nato da un’intuizione brillante, sviluppata con talento.

Scheda completa: Tango puro : manuale di tango argentino / Alejandro Angelica ; Marco Aleotti ; Lorenzo Ceva Valla - Milano : Hoepli, 2012 - 291 p. : ill. ; 22 x 24 cm + 1 DVD. - ISBN 978-88-203-4641-6 Euro 33,92

lunedì 17 dicembre 2012

Ritorna la milonga all'ex bananificio. Udine, 22 dicembre 2012

Da un paio di mesi a questa parte le parole "milonga", "bananificio" e "Udine" sono costantemente in testa a tutte le statistiche di questo blog. Fa quindi piacere che in occasione delle festività natalizie venga riproposta la bella iniziativa del 6 ottobre scorso. Tutti ci auguriamo che questa simpatica proposta replichi il grande successo della prima sera, sempreché i simpatici Maya decidano che il tango sia un buon motivo per rimandare di un giorno la fine del mondo. Tutti dettagli dell'evento su tanghitudine.


mercoledì 17 ottobre 2012

Recensione: Tango elettrico, di Tjuna Notarbartolo.

June è una tipica donna del nostro tempo, forte, determinata, sicura di sé, refrattaria alle romanticherie e assai poco incline al sentimentalismo. La fine di una lunga relazione di coppia le ha lasciato in eredità una sorta di anestesia psicologica, tanto da considerare oramai gli uomini con distacco venato da indifferenza. Essi sono diventati una delle tante cose della vita di cui è possibile in un modo o nell’altro, fare a meno, come minimo per la facile disponibilità di succedanei accettabili: un lavoro da giornalista che la assorbe e la appassiona, piuttosto che un’animale da compagnia o la vicinanza delle amiche.
Questa situazione di relativo equilibrio va clamorosamente in pezzi dopo l’arrivo di un SMS da un numero sconosciuto. E’ l’inizio di un incalzante crescendo di tensione che trascinerà la protagonista nelle spire di un travolgente amor fou consumato a distanza tra mille peripezie, sebbene i due protagonisti non si incontrino praticamente mai e lo stesso finale rimanga aperto.
Tutta la vicenda è presentata al lettore dal punto di vista di June ma l’autrice dimostra una non comune maestria riuscendo ad evitare sia la pesantezza che di solito accompagna gli approcci introspettivi, sia la tentazione di lasciarsi prendere la mano dalla ricerca dell’eccitamento fine a se stesso. La storia è dipanata in modo freschissimo e vivace - spesso arricchita da tratti autoironici - e si fa apprezzare per una tensione narrativa attentamente dosata. Il dominio della scrittura è sempre molto saldo e l’autrice riesce a costruire una plausibile atmosfera di aspettativa senza mai rinunciare al senso della misura, nemmeno quando le situazioni narrate si avvicinano all’intimità. Si apprezza inoltre il brusco contrasto tra la concisione lapidaria degli SMS e certi passaggi narrativi più distesi, ad esempio una bella e lunga descrizione di atmosfere napoletane che ha il pregio di non ricadere nei consueti cliché pur mantenendo un gradevole registro lirico.
Il risultato è tanto più meritevole se si pensa come il vero protagonista del romanzo non sia affatto l’amore bensì la più ineffabile e sfuggente delle condizioni. L’assenza. Tango elettrico riconferma quindi un principio di ordine universale che vuole il più intenso sentimento lirico nascere dalla mancanza, alimentato dalla brama verso qualcosa che non si possiede ancora. Tanto più questa meta è lontana, irraggiungibile e sconosciuta, tanto più assume i caratteri dell’assoluto totalizzante.
Dunque una classica situazione di crisi, intesa non tanto come pericolo incombente, bensì come necessità di sperimentare nuove modalità di azione, occasione di mettere alla prova abilità mai sperimentate prima o semplicemente stimolo ad esplorare nuovi territori alla ricerca di soluzioni alternative. Sono le condizioni necessarie per un allargamento di orizzonti o quantomeno i presupposti per riuscire ad integrare le esperienze passate in una nuova e più ampia visione della vita.
Qui però il percorso è diverso. Il desiderio dell’appagamento fa indubbiamente da motore narrativo, ma la protagonista non sperimenta un’evoluzione interiore. June e Fabrizio si ricorrono per tutto il romanzo ma ogni qual volta sono prossimi ad incontrarsi si manifesta un fattore di disturbo, vuoi perché si profila un elemento capace di guastare l’atmosfera, vuoi perché semplicemente non riescono a trovarsi contemporaneamente nello stesso posto.
La psicologia si è a lungo esercitata sulla seduzione degli amori irrealizzabili (un sacerdote piuttosto che una donna sposata o una persona che vive all’altro capo del mondo) evidenziando come tutte queste situazioni pongano sempre un limite perentorio al nascere di una relazione nel senso pieno della parola. Questo limite non è però un ostacolo da rimuovere, bensì l’elemento essenziale del gioco, la condizione che tiene perennemente viva la passione e l’eccitamento. Essi sono alimentati da una tensione incessante verso qualcosa che non si realizzerà mai davvero, e che pertanto viene sottratta al rischio delle brutali smentite che la realtà offre talvolta alle nostre aspirazioni.
In questo senso il romanzo sollecita diverse riflessioni. Ad esempio induce ad interrogarsi sulle sottili bugie che propaliamo a noi stessi quando asseriamo di amare una persona in quanto tale, mentre spesso ci infatuiamo di un’immagine tendenziosa che abbiamo costruito a nostro uso e consumo, quando addirittura non siamo innamorati dell’amore in quanto tale, bramando cioè l’eccitazione e il sentimento come antidoti alla grigia e polverosa uniformità delle nostre esistenze. Forse, ciò che proclamiamo di volere non coincide sempre con ciò di cui abbiamo realmente bisogno.
Non meno interessante il modo vivido con cui viene presentata una delle più amare contraddizioni della vita contemporanea: tanto più sviluppiamo i mezzi adatti a determinare il nostro destino, cerchiamo di avere successo, di sviluppare i nostri talenti, di realizzare aspirazioni o di renderci indipendenti da fattori esterni, tanto più siamo vulnerabili all’alienazione. Non a caso il significato etimologico di autonomia è proprio “norma valida solo per se stessi”. Il prezzo della libertà è normalmente la solitudine.
Non è quindi un caso che il romanzo dedichi così tanto spazio al ruolo della fantasia e dell’immaginazione. Si tratta di potenti attività creative che hanno in sé le risposte ad ogni possibile domanda, l’attitudine a guardare non solo verso un aureo passato ma anche in direzione di tutte le possibilità realizzabili, anche se ancora potenziali. Forze quindi essenzialmente creatrici poiché è impossibile ottenere qualcosa senza prima pensarla come realizzabile. E sarà proprio in quest’ottica, sulla scia di un intellettuale influente come Herbert Marcuse, che la contestazione parlerà di “fantasia al potere”.
La vicenda di June è in questo senso un’esperienza di liberazione. Da una lato la protagonista vive in modo diretto gli aspetti più prosaici della professione giornalistica, un’attività che nel senso comune è spesso vista come sinonimo di vita brillante e poco faticosa (“Pur di non lavorare!”, si dice frequentemente di questo ed altri simili mestieri) ma che invece l’autrice tratteggia in modo assai verosimile, con la competenza di chi vive questa condizione dall’interno. Sono le scadenze incalzanti, l’insopportabile pochezza di certi personaggi, il sentirsi perennemente tirata per la giacchetta oppure l’arroganza boriosa di politici di mezza tacca convinti di poter fare il bello e cattivo tempo solo perché gestiscono un capitolo di spesa.
Dall’altro, l’amore è invece reso come trasporto, emozione travolgente, fuoco divorante della passione senza compromessi o mezze misure, una tensione verso l’assoluto che non ammette né limiti né confini, dando così vita ad un contrasto di luci ed ombre che percorre tutto il romanzo:

“Sapere tutto di te e non sapere niente. Non  ci siamo mai chiamati per nome. La vita che ci si porta addosso è pesante e appesantisce l’amore. Il nostro amore non ha peso perché non ha nome. E’ un amore leggere e voluttuoso, smodato, prodigioso.”

Sono queste le parole di June per rendere l’intensità della sua passione per Fabrizio, ma si noti che a quel punto della vicenda il suo amato bene è poco più che un nome, per altro dai contorni assai nebulosi. Tanto nebulosi che la giornalista cercherà di renderlo meno inafferrabile dando vita ad un fumetto con l’auto di un amico disegnatore, il che ingarbuglierà ancora di più la storia per l’intrecciarsi inestricabile di fantasia e realtà. Perfetta metafora del progressivo sgretolamento di ogni giudizio critico sull’altro che è proprio l’ingradiente più desiderato e temuto di ogni innamoramento che si rispetti.

Cosa c’entra tutto ciò con il tango? Parrebbe nulla. Ma di fronte ad un risultato tanto felice volentieri perdoniamo all’autrice di averci così elegantemente buggerato.

Cos’è piaciuto:

- qualità della scrittura;
- tensione narrativa;
- sottile sensibilità erotica al femminile, arricchita da un’elegante autoironia.

Cosa non è piaciuto:

- Nulla 

Il giudizio in una riga: (ore 16,21 – 320925...) Ciao. Ho scritto una recensione del tuo libro sul mio blog. Ti piace? Chissà se ti ricordi di me. Baci.

La frase da ricordare: “L’amore è assolutamente libero, per essere l’unica massima prigione. Perché è un miracolo a ai miracoli non si chiede la ricevuta di ritorno, non sta bene”.

Scheda completa: Tango elettrico : romanzo / Tjuna Notarbartolo. - Modena : Borelli, 2008 - 191 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-86721-71-4, Euro: 12.75.