venerdì 14 ottobre 2011

Ancora sulla recensione de: Il tango ritrovato. Un diario di viaggio nel tango di oggi, di Haim Burstin

Ricevo e volentieri pubblico un intervento di Haim Burstim a proposito della recensione de Il tango ritrovato:

Da: haim.burstin@unimib.it
Data: 13/10/2011 15.59
A: "Dr. Zero"<dr.zerotango@libero.it>
Ogg: Re: Nuova recensione de “Il tango ritrovato”

Caro dottor Zero,
la ringrazio di cuore della sua recensione che ho letto con piacere e interesse. E' senz'altro la più attenta e raffinata che il mio libretto sul tango abbia ricevuto: quanto di meglio potrebbe sperare un autore.
Ma c'è un'altra ragione per cui la leggo con soddisfazione
Ho scritto questo libretto senza vanità e senza premura. Ho atteso molti anni prima di credere che ne valesse la pena e senza particolari aspettative, se non quella di fare cosa utile al micro-mondo dei miei amici del tango. Da quell'ambiente - spesso assai poco "autoanalitico" e solitamente disimpegnato - mi sono arrivate in questi anni testimonianze affettuose e riconoscenti. Ogni tanto mi scrivono persone sconosciute, che mi testimoniano come questo  libro abbia dato loro qualcosa.   Ho scritto altri libri per il mio lavoro, che mi sono costati senz'altro più fatica, con buon riscontro scientifico, ma non la sensazione di aver fatto qualcosa di particolarmente utile e gradito a qualcuno. Ecco, questo sul tango invece mi sta dando quello che altri lavori non mi hanno dato.
Metterò la sua recensione tra i risultati più positivi di questa impresa.
La ringrazio ancora vivamente e spero, prima o poi,  di conoscerla di persona.
Un saluto cordiale

Haim Bursitn

Tango nuevo, di Monica Gallarate e Giorgio Proserpio

Monica Gallarate e Giorgio Proserpio, maestri e ballerini professionisti, sono i protagonisti dell’ottavo volume del Corso di tango in DVD pubblicato delle leccesi Sigillo Edizioni.  
I movimenti proposti sono svariate decine, ordinatamente presentati in una sequenza organica che inizia con una serie di esercizi mirati, prosegue per raggruppamenti tematici e termina infine con la proposta di numerose ed efficaci concatenazioni. Le riprese sono in esterno, da una posizione leggermente elevata con inquadratura perlopiù a campo medio e un uso efficace dei movimenti di macchina. Le figurazioni vengono presentate dai due ballerini che danzano assieme, evitando la consueta scelta di illustrare separatamente i movimenti dell’uomo e della donna: né del resto potrebbe essere altrimenti, trattandosi di movimenti che presuppongono l’equilibrio condiviso tra i partner oppure dei passaggi in fuori asse. Il movimento viene commentato a turno dai due, mentre un efficace montaggio utilizza di volta in volta riprese rallentate, primi piani o inquadrature da diversi punti di vista. Semplice e intuitivo il menu di navigazione.
La colonna sonora non appartiene al repertorio elettronico, bensì sfrutta orchestre tradizionali: l’accostamento a prima vista sembrerebbe forzato, ma il risultato è senza dubbio felice e soprattutto nulla toglie alla chiarezza didattica.
Il non leggerissimo prezzo di copertina (35 Euro) è per altro giustificabile dalla ricchezza dei contenuti. Nel libretto allegato, il solo elenco delle figure proposte corre infatti per tre pagine e mezzo a cui seguono una serie di testi che presentano il tango nuevo nel suo doppio aspetto di musica e danza, evidenziando in modo equilibrato gli elementi di rottura e di continuità con la tradizione. La stessa introduzione al DVD avverte che i movimenti illustrati non costruiscono un esercizi fine se stessi o proposte coreografiche, ma sono riproducibili anche a milonga, sempre tenendo presenti le limitazioni dettate del buon senso. Riproduzione e stampa sono di tipo professionale, buona inoltre la qualità video, del doppiato e della colonna sonora.
Nella la scena del tango nuevo, si tratta di un prodotto di particolare interesse trattandosi di uno dei pochissimi contributi video in lingua italiana, se non l’unico in assoluto. La sua utilità è indiscutibile per chi possieda già le basi di questa forma di danza e ne abbia assimilato almeno i concetti essenziali, potendo così facilmente attingere ad una vasta libreria di movimenti da utilizzare per arricchire rapidamente il proprio repertorio. Assai meno plausibile un suo utilizzo per l’auto-apprendimento da zero di colgadas e volcadas, ma questo è un limite comune a tutti i video corsi.

Cos’è piaciuto:
  • Ordine e metodo nella presentazione;
  • Qualità audio-video;
  • Ricchezza dei contenuti.
Cosa non è piaciuto:
  • Nulla.
Il giudizio in una riga: Se partite proprio da zero meglio cominciare con qualcosa di meno tecnico, in tutti gli altri casi è un DVD da non perdere.

Scheda: Tango nuevo / Giorgio Proserpio e Monica Gallarate - Lecce : Sigillo, [2008] - 1 DVD video (ca. 70 min) ; 12 cm + 1 fasc. ([8] c. ; 17 cm). - ISBN 88-89990-01-5 978-88-89990-01-8 Euro 35,00

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mercoledì 12 ottobre 2011

Tango. Storia dell'amore per un ballo, di Robert Farris Thompson

La diffusa nozione di “versione ufficiale del fatti” si fonda su alcuni presupposti:

  • Viene elaborata dopo gli eventi, spesso a distanza di tempo: non è dunque una cronaca in tempo reale o un diario;

  • È indirizzata ad uno scopo specifico, funzionale alle necessità di un gruppo egemone (ricerca del consenso, legittimazione, autoassoluzione ecc.);
  • Presuppone un atteggiamento di selezione arbitraria delle fonti fatta con criteri diversi da quelli della ricerca storica. A certi fatti viene data particolare enfasi, altri sono accantonati, altri ancora presentati in modo tendenzioso.
In estrema sintesi, il messaggio del libro si può dunque compendiare proprio in questi termini: la storia del tango come oggi la conosciamo è grossomodo la versione ufficiale elaborata dalle classi colte di origine e tradizione europea. Si tratta in realtà di un ballo essenzialmente africano, di cui i bianchi si sono appropriati in modo più o meno surrettizio, presentandolo scorrettamente come una propria elaborazione culturale e oscurandone così le vere origini. Il tutto si basa su un’affascinante schema interpretativo, la cosiddetta ‘cultura afro-atlantica”. In un arco che va dal Mississippi al Rio della Plata, la diaspora dal continente nero si è infatti variamente ibridata con altri modelli dando vita ad un fenomeno sostanzialmente unitario, ancora riconoscibile grazie ad un nucleo di elementi comuni.
L’opera rivela un indubbio coraggio intellettuale ed è facilmente leggibile anche in chiave terzomondista. La sopraffazione dell’oppressore bianco che ruba non solo terra e risorse ma anche la cultura dei popoli oppressi è infatti un tema che sembra fatto apposta per suscitare qualche mal di pancia, e la stessa prefazione avverte come parte dei contenuti potrebbero risultare assai indigesti ai cultori del tango di stretta osservanza.
La stessa pubblicazione dell’edizione italiana è segnata da riconoscibili compromessi di vendibilità. Un libro che dovrebbe onestamente chiamarsi Le origini africane del tango o giù di li viene introdotto da una levigata immagine di copertina che ritrae due ballerini dalle fattezze spiccatamente europee, la presentazione sulla bandella si diffonde su tutto fuorché sulle radici nere, mentre le parti editoriali nel loro complesso ammiccano al più tradizionale immaginario collettivo. Il libro si propone invece come una salutare demolizione delle cosiddette vulgate, ovvero di tutte quelle spiegazioni troppo semplificate di fenomeni complessi, prese per buone perché riprodotte tal quali da più fonti diverse e quindi accettate senza spirito critico dalla platea di fruitori. Esse infatti riconfermano ciò che il pubblico già sa, o piuttosto crede di sapere, dunque sono spesso refrattarie a qualsiasi tentativo di revisione o di approfondimento critico.
Si tratta quindi di una lettura senza dubbio affascinante, utile per allargare i propri orizzonti seguendo il filo di scoperte sempre nuove. Una delle sezioni più gustose è infatti un glossario dove l’autore analizza vocaboli ed espressioni attestate nella cultura rioplatense, svelandone la derivazione da idiomi africani. Nella travolgente Tango negro di Juan Carlos Cacéres avete forse considerato il ritornello “borokotò, borokotò, chás-chás” una specie di vocalizzo privo di senso compiuto, inserito a scopi puramente fonetici? È in realtà un’onomatopea bakongo che annuncia l’inizio di un rituale nella foresta, frase giunta fino a noi attraverso la mediazione del candombe e delle altre forme di musica e danza che hanno plasmato il tango delle origini. Invano cerchereste la parola Jumba - titolo di un trascinante tango di Pugliese - in un dizionario di spagnolo del Siglo de oro: si tratta in realtà di un vocabolo sacro congolese, che indica il comando di Dio, la forza costruttrice che fa accadere le cose. Lo stesso Farris sottolinea la parentela jumba - rumba, a conferma di un insospettabile comune denominatore legato alla diaspora africana.
Non a caso l‘autore si diffonde estesamente sulla milonga come genere musicale, distaccandosi però nettamente dalle spiegazioni consuete che la presentano come una semplice variante allegra, veloce e scherzosa. Essa si colloca sì accanto al tango, ma si soprattutto prima di esso: è infatti il genere più vicino alle origini, dove si può cogliere più facilmente l’influsso africano rivelato ad esempio dal senso del sacro, dall’idea della celebrazione collettiva o dalla condivisione di un patrimonio comune di emozione e sentimenti. L’autore ci regala anzi una delle più belle e poetiche definizioni di milonga, evocata allusivamente come “esperanto creolo della notte”.
Non meno ricche di dati le parti apparentemente più scontate, come ad esempio la sezione sul tango nel cinema. Le traversie di Ultimo tango a Parigi con la censura sono infatti ben note, ma è invece assai meno conosciuto il veto che fu imposto al film dalla giunta miliare argentina, un aspetto che privò il paese di un’opera indubbiamente controversa, ma soprattutto di un vivo e costruttivo dibattito sulla propria cultura. Accanto a riferimenti ormai radicati nell’immaginario collettivo o comunque ben noti, Farris pone inoltre l’attenzione su una delle più insospettabili scene di tango che si possono rintracciare nelle arti visive, ovvero la sequenza di Soldato d’Orange (1977) di Paul Verhoeven in cui un ufficiale nazista nell’Olanda occupata costringe un ex compagno di scuola, ora agente segreto degli alleati e futuro eroe nazionale, a danzare con lui un tango fra uomini. L’autore ne da una lettura socio-politica, ovvero l’imposizione della volontà maschile come metafora dell’aggressività hitleriana, ma l’inserimento di quest’episodio di fantasia nella trama di un film d’autore non pare una deprecabile banalizzazione. Semmai è la spia di come il tango aspiri ormai da tempo a diventare un linguaggio universale, non più legato al suo contesto d’origine bensì adatto ad esprimere i sentimenti e le idee umane su scala tendenzialmente amplissima.

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Se la grande ricchezza di dati e di notizie appare incontestabile e l’intento del libro è senza dubbio meritorio, il giudizio complessivo sul lavoro è più complesso. Per semplicità possiamo dividere la tesi di Farris in due parti:
  • La storia di Buenos Aires si è alimentata di un consistente apporto di cultura africana, ma questo fenomeno è stato progressivamente obliato man mano che scompariva la popolazione nera che ne era portatrice;
  • Le origini del tango sono essenzialmente africane, e gli apporti più significativi nella sua storia sono dovuti a persone di colore.

La prima parte è argomentata in maniera convincente con il ricorso ad un ampio numero di fonti diverse, tra cui spiccano quelle iconografiche. Farris rivela tutto il suo talento di antropologo nel decifrare particolari apparentemente casuali o secondari di dipinti, schizzi, disegni e incisioni, spesso illuminando il significato di dettagli che sfuggono ad un’osservazione superficiale: la foggia degli abiti, la postura e la gestualità delle figure oppure gli stessi arredi rivelano una storia nascosta e del tutto insospettata.
Per quanto riguarda la seconda, il giudizio non è così netto. Che una parte anche rilevante della storia del tango sia di matrice africana viene senz’altro dimostrato con prove che paiono molto solide; che nel vortice della storia questi apporti siano stati minimizzati in favore di una versione più rassicurante che enfatizza i contributi europei è parimenti plausibile, ma che ogni aspetto del tango sia spiegabile solo con queste radici non sembra altrettanto piano o perlomeno non viene argomentato in modo altrettanto convincente.
A volte si ha quasi l’impressione che l’autore si lasci prendere la mano finendo per vedere radici africane laddove forse non ce ne sono affatto. È purtroppo una debolezza che accomuna molti cultori di scienze umane che si innamorano della propria area di studio e finiscono per non vedere altro. Come uno storico di formazione marxista riconosce le dinamiche della lotta di classe dietro ogni fenomeno, così Farris si trasforma a volte in un’impalcabile macchina da guerra che macina negritudine a quattro ruote motrici, a volte con risultati un po’ irreali.
L’autore ad esempio ammette la mancanza di fonti certe che spieghino la circolazione antioraria nella sala da ballo, salvo inserire subito dopo una dotta divagazione sul simbolismo africano del cammino del sole, evidenziandone le profonde implicazioni metafisiche tipiche del continente nero. Proprio quando il lettore si attende la consueta prudenza che caratterizza gli specialisti accademici (Farris, nato nel 1932, è infatti un cattedratico a Yale) viene invece buttata li una conclusione formulata in termini assai perentori: “In Argentina il cammino del sole divenne il cammino del tango”. Chissà cosa ne pensano i cultori di tutti i balli di tradizione schiettamente europea, danze che condividono le stesse regole di circolazione: il valzer deve nascondere perlomeno un simbolismo celtico e la mazurca vantare come minimo sopravvivenze sciamaniche.

Torniamo al testo. Forse l’ocho si chiami così perché il movimento pare disegnare quella cifra sul pavimento della sala? Troppo semplice e scontato. Farris cita rapidamente questa spiegazione, ma subito dopo si incammina sul solito sentiero: 
Dovendo scegliere fra una spiegazione semplice - che presuppone la semplice convenzionalità oppure il mero caso -, ed una piuttosto lambiccata, ma coerente con i presupposti di fondo della ricerca, si finisce fatalmente per scivolare verso la seconda. Se poi si mette sotto i riflettori solo uno dei tanti fattori che contribuiscono all’evoluzione di un fenomeno molto complesso e lo si presenta quindi al lettore come l’unica causa determinante, allora l’esito è quello che sappiamo.
In Congo, chi esegue un assolo si gira da una parte e dall’altra (zeka), facendo degli ochos. Lo fanno per cambiare la direzione del ballo (n’ini meti zeka ngodi mu soba lusunga lwa makinu). Lo schema a otto si chiama zinga ngodi (letteralmente ‘intrecciare due cerchi’). Viene eseguito come segno di equilibrio (kinenga). Ma c’è anche un interpretazione più profonda: ballare descrivendo due cerchi significa rappresentare “due modi di vivere, e “affondare nelle tradizioni per poi tornare”. [Si tratta] di un antico emblema di equilibrio bakongo (equilibrio tra i sessi, tra i due mondi) che in Agentina venne creolizzato fino a diventare il passo più assertivo della donna nel tango.
Su un piano più generale, le fonti di Farris sono spesso assai interessanti ma paiono interpretate con eccessiva disinvoltura, vuoi presentando come fatti certi quelle che sono piuttosto delle ipotesi, vuoi insistendo in modo eccessivo sull’analogia esteriore come prova di reale affinità, oppure – nello specifico - spingendo sul diffusionismo come unico modello interpretativo. Si assume cioè che taluni riconoscibili caratteri culturali partano da luoghi specifici e si propaghino geograficamente, il che giustifica come aspetti simili si ritrovino in zone diverse del pianeta. Dunque, se A somiglia a B, allora il più antico ha influenzato il più recente, oppure entrambi hanno un capostipite comune ancora più remoto.
Il percorso appare legittimo ma la fiducia nel metodo è forse eccessiva. Va notato come il diffusionismo sia solo uno dei modelli usati in antropologia e perlopiù quello dov’è più facile prendere degli abbagli, ad esempio concentrandosi su somiglianze puramente epidermiche, oppure non prendendo in considerazione l’ipotesi di semplici convergenze evolutive, quando cioè due fenomeni apparentemente simili sono il risultato di un percorso completamente diverso.
Questi e simili atteggiamenti sono stati elegantemente parodiati da Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault, un romanzo di successo dove si tratteggiano le vicende di un gruppo di persone che lavorano in una casa editrice di testi occultistici. Essi acquisiscono man mano la forma mentis dei loro improbabili autori sviluppando così una sorta di logica alternativa dominata da irrazionali connessioni fra i fatti più disparati, in cui tutto dimostra tutto. Finiscono  così per scorgere rivelazioni, significati ermetici e verità nascoste in qualsiasi cosa, dagli oggetti di uso comune alle vicende storiche e culturali, finché verranno travolti dal loro stesso gioco in un drammatico finale.

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In altri casi le obiezioni non riguardano il metodo bensì i contenuti.
Il primo esempio è lo striminzito capitoletto sul contributo italiano: sono 44 righe in tutto di cui un buon terzo sembra confezionato mettendo insieme banalità piuttosto ovvie. L’autore introduce l’argomento  ricordando che in un museo di Buenos Aires è conservato un dipinto che raffigura dei suonatori di strada a Venezia (!); prosegue ricordando la reciproca stima fra Gardel e Caruso; racconta di aver trovato delle notazioni in italiano in un partitura di tango (ma è la consueta terminologia del tipo pianissimo, espressivo ecc. che si usa universalmente nella musica colta); cita una fonte indiretta del 1913 che parla di donne italiane che modificano l’interpretazione del ballo e infine aggiunge quella che sembra l’unica considerazione sensata: l’influenza di Rossini in Horacio Salgán e Osvaldo Pugliese. A ciò si aggiungono pochi altri accenni sparsi in altre pagine. Tutto qui?
È inoltre utile osservare come un libro molto recente (l’edizione originale è del 2005) si fermi con i continuatori di Piazzolla. Farris accenna infatti al contributo di Ziegler, di  Aslán e soprattutto  dell’orchestra El Arranque, un complesso presentato con un lirismo francamente enfatico: “sfidano i limiti”, “superano i confini della coscienza”. Peccato che fin dal  2001 i Gotan Project siano diventati un fenomeno addirittura planetario adottando un’estetica musicale che parrebbe legittimo descrivere negli stessi identici termini. Si può obiettare che sintetizzatori e  drum machine non siano assolutamente riconducibili alla nozione di tango (posizione legittima al pari di quella contraria) ma nel bene o nel male non pare lecito ritenerli trascurabili. A fingere di non vedere quel che non piace si fa di solito una modesta figura.


Cos’è piaciuto:
  • Meritorio coraggio intellettuale e spiccata originalità;
  • Capacità di esplorare e presentare fonti poco note al grande pubblico;
  • Ricchezza di informazioni e di documenti.

Cosa non è piaciuto:
  • Metodo un po’troppo disinvolto e copertura parziale del fenomeno.

Il giudizio in una riga: Da leggere assolutamente, come arricchimento culturale e utile ampliamento di orizzonti, ma conservando sempre un po’ di spirito critico.

La frase da ricordare:n’ini meti zeka ngodi mu soba lusunga lwa makinu”.

Scheda: Tango : storia dell'amore per un ballo / Robert Farris Thompson ; prefazione di David Byrne ; traduzione di Chiara Brovelli - Roma : Elliot, 2007 - 411 p. : ill. ; 25 cm Euro 22,00