domenica 12 febbraio 2012

R come tango. Intorno alla milonga postmoderna

Molti anni fa, nel pieno del mio ribollente entusiasmo da neofita, invitai a milonga una conoscente a cui volevo far scoprire la magia e la bellezza del tango. Ascoltò diligentemente le mie spiegazioni, si mise ad osservare le persone, tentò di immedesimarsi nell’ambiente cercando di cogliere l’atmosfera finché io ruppi gli indugi chiedendole ansiosamente che cosa ne pensasse. Mi rispose con il disarmante candore della profana: “Oddio, il tango è stupendo! Ma perché lo rovinate con ‘sta musica da vecchi?”.
Li per lì non seppi cosa risponderle, anche perché nella sala si diffondeva un brano dal vago sapore agée. Appiattita dal fruscio di un vinile, dalle profondità catacombali di un grammofono usciva la voce di un interprete nato ad occhio negli ultimi anni del XIX secolo e l’impressione generale era di qualcosa grossomodo contemporaneo al Quartetto Cetra o al Trio Lescano. L’impossibilità di dare una risposta plausibile a quella domanda diede inizio ad un lungo periodo di esplorazione musicale, sfociato dopo diversi anni nello specifico interesse di cui questo blog è espressione.
Conosco l’obiezione. Non è assolutamente legittimo ignorare l’assoluta qualità musicale dei tanghi degli anni trenta-quaranta (la cosiddetta “epoca d’oro”) a favore di incisioni recenti realizzate da orchestre contemporanee, siano esse formazioni tradizionali, ensemble elettronici o gruppi che nulla hanno a che fare con la musica da ballo. Ciò toglie al pubblico l’atmosfera irripetibile e frusciante del “buon vecchio tango di una volta” per colpa di proposte fuorvianti, lontane dalla consuetudine, in ultima analisi inutili e dannose. Il tango è già perfetto così com’è, nella forma in cui ci è stato consegnato dalla tradizione. Non c’è quindi alcun bisogno di modernizzarlo o di aggiornalo, anzi occorre impegnarsi per difenderne la purezza autentica, vigilando perché esso non si corrompa.
Sia chiaro. Non pretendo nessuna originalità né alcun diritto di primogenitura. Quando cominciai a mettere in discussione quanto ho riassunto sopra, il fenomeno aveva già una fisionomia ben riconoscibile ed inoltre - solo per restare in ambito locale - un musicalizador come Alessandro Simonetto aveva già da tempo sdoganato l’idea della creatività a milonga. Ciò che  rivendico come un possibile contributo autonomo è la capacità di costruire un discorso ben argomentato usando quegli strumenti che mi sono familiari dalla mia formazione e dal mio lavoro: la storia delle idee e l’antropologia culturale. Per illustrare la mia posizione ricorrerò ad una serie di esempi.

Il valore della norma
Non vi è alcun dubbio che gli anni ’50 abbiano segnato un momento altissimo nella storia della moda. In quel periodo lavorarono un gran numero di personalità di eccezione, le cui straordinarie creazioni hanno durevolmente influenzato i decenni a venire.

La qualità estetica di quelle realizzazioni è oggi universalmente riconosciuta e acclamata, tanto che i vestiti e gli accessori di quel decennio sono esposti nelle collezioni di tutto il mondo. Tuttavia, se per ipotesi qualcuno sostenesse che le donne di oggi possono indossare solo e soltanto copie esatte delle calzature di Ferragamo oppure riproduzioni perfette degli abiti di Chanel, egli verrebbe probabilmente travolto dalle risate dell’intero genere femminile. Un mondo dove le vetrine delle boutiques riproponessero eternamente solo gonne gonfie o abiti stretti in vita, perennemente uguali a sé stessi una stagione dopo l’altra, diventerebbe la negazione completa di ogni idea di creatività e di libera espressione, avvicinandosi semmai ad un cupo scenario orwelliano.
Ci si può legittimamente chiedere perché l’incongruenza di questa argomentazione appare evidente a chiunque, mentre l’affermazione che a milonga si debba ballare solo il tango dell’epoca d’oro viene presentata come un assioma indiscutibile, e quindi accettata di norma senza riflettere. Qual è dunque la differenza fra queste due posizioni? A mio umile parere nessuna: tutte e due mi paiono infatti insostenibili.
Si sente spesso argomentare che il tango degli anni trenta e quaranta costituisce il vertice assoluto di una specifica cultura musicale e che pertanto tutto ciò che è stato prodotto in seguito non abbia la stessa qualità. Di conseguenza, non merita di essere riproposto. Per la mia personalissima posizione, pochi concetti mi sembrano tanto detestabili quanto l’idea che il punto culminante di qualsivoglia esperienza umana sia collocato nel passato, specie se l’oggi venga presentato come uno scadimento o una degenerazione del buon tempo andato. Ne consegue che l’unico compito concesso a chi abbia la disgrazia di vivere nel presente sia un reverente lavoro di riordinamento, catalogazione, studio e incondizionata adorazione.
Ovviamente non sono d’accordo. Sostengo che si possa aver rispetto di una tradizione illustre senza esserne in soggezione, evitando cioè  di essere condannati ad un’eterna minorità creativa nei confronti delle generazioni che sono venute prima di noi. Provo serenamente a fare ciò che hanno fatto gli esseri umani di tutte le epoche: esprimere qualcosa che sia organico al mio tempo adoperando i mezzi che ogni epoca mette a disposizione, utilizzando quel tanto della cultura passata che possa risultare funzionale ai miei scopi. E’ ovvio infatti che nulla emerge all’improvviso da un deserto di informazioni bensì è collocato in una tradizione ed in un contesto. L’architettura, la moda, il design e tutte le arti visive sfruttano incessantemente citazioni, recuperi e ammiccamenti.

Tre esempi di design contemporaneo che incorporano citazioni di elementi stilistici databili verso la metà del XX secolo: da sinistra a destra, frigorifero Bosch KDL 19469 (forme arrotondate); Crysler PT Cruiser (linee del muso e particolare della calandara); Scarpa Jimmy Choo collezione primavera estate 2011 (zeppa a cuneo realizzata in corda).

Quando parlo della necessità di esprimere qualcosa che sia organico al mio tempo intendo soprattutto l’incertezza, il dubbio, la percezione di una complessità irriducibile, il venire meno delle rassicuranti sicurezze del passato, l’irrilevanza sociologica della fiducia in un futuro sempre migliore ed in perenne ascesa, la fine di riferimenti universalmente validi, la possibilità di rapportarsi a più ambiti culturali diversi, la percezione di un’esperienza frammentaria, camaleontica, eternamente mutevole, spesso incomprensibile e disorientante, ovvero tutto quanto si fa rientrare nella definizione – per altro assai controversa – di postmoderno. L’eclettismo delle scelte, la rinuncia programmatica ad una scaletta rassicurante e prevedibile (in quanto tendenzialmente sempre uguale a se stessa) indica non solo il rifiuto di un’unitarietà che sento come artificiosa ed imposta a priori, ma anche come dissoluzione dei tradizionali confini tra i generi, superamento delle strutture e degli stili tradizionali e infine accantonamento di modelli preordinati. Si realizza così un fluire di elementi diversi, la cui percezione d’assieme contribuisce a far emergere nuovi e inattesi significati che non erano compresi nell’accezione originaria dei singoli elementi.
In risultato non è assolutamente una falsificazione storica – poiché l’intento è apertamente dichiarato e tutto il processo rimane perfettamente riconoscibile – bensì una sorta di ri-creazione che è pertanto schiettamente postmoderna. Questo lascia spazio anche all’ironia, alla leggerezza, al gioco, allo scherzo ed alla sorpresa, persino alla dissacrazione, tutti elementi di solito tassativamente esclusi dalla milonghe più tradizionali, le quali sono normalmente intonate ad una rigida e pomposa seriosità.


La prescrizione di dover procedere in un certo modo solo perché “A Buenos Aires si fa(ceva) così” mi sembra indubbiamente degna di rispetto, ma ai miei occhi ha la stessa utilità di un manuale sull’avviamento a manovella dell’auto o un prontuario su come rammendare i gomiti dei costumi da bagno. La mia personale visione è che il tango, e con esso la musica da tango, sia quindi un perfetto esempio di fenomeno culturale di lunga durata che si trasforma liberamente all’interno di società complesse e plurali. Esso mantiene una sua percepibile unità sostanziale, anche se i modi e le forme con cui esso si manifesta sono di volta in volta diversi a seconda dell’epoca e del contesto.

Sia ben chiaro. La posizione opposta mi sembra egualmente legittima e altrettanto degna di rispetto. A prescindere da quanto dettato dalla norma in senso stretto - ovvero la legge - l’adeguamento ad una prescrizione rimane sempre interno al soggetto: tutto infatti si riduce ad una questione di indole, temperamento e attitudine. In un corteo si può infatti tranquillamente cantare “Bella ciao” senza per altro aver mai imbracciato uno Sten o messo un fazzoletto rosso al collo, come minimo perché si è nati negli anni ottanta e quelle vicende si sono lette solo sui libri di scuola. In questo caso lo slittamento temporale e culturale vale come un mezzo per attingere ad una specifica esperienza che in qualche modo sentiamo come fondante della nostra identità civile, ma la scelta di starsene zitti o cantare la canzone di protesta che si preferisce è legittima quanto la prima.
L’adesione al più tradizionale sistema di codici musicali mi sembra quindi un fatto rispettabilissimo, che può essere naturalmente letto come adesione interiore allo spirito di un epoca, oppure come via privilegiata per entrare in relazione con certe specifiche atmosfere e sensazioni. A mio personale parere rimane però uno dei tanti possibili itinerari individuali, ma non certo una norma generale valida automaticamente per tutti.
Si può obiettare che noi moderni leggiamo le peregrinazioni di Ulisse senza avvertire affatto la necessità di modernizzarle o adattarle al nostro tempo, ed anzi ciò che le rende attraenti è proprio l’esplorazione di un universo culturale completamente diverso da ciò che ci circonda oggi, giunto a noi intatto e senza contaminazioni di alcun genere. Il discorso non fa ovviamente una piega.
Ritengo semplicemente che questo principio sia valido in senso generale, ma del tutto inapplicabile alla scaletta musicale di una serata di tango. Vediamo perché.

Il valore di documento contro il valore d’uso
Immaginiamo per un momento di avere in mano un’antica mappa, non necessariamente un pezzo da museo, ma anche solo un esemplare di qualche generazione fa. Il materiale non più attuale di cui è fatta, il diverso modo in cui le informazioni sono organizzate e presentate, l’obsolescenza dei dati geografici, gli stessi segni lasciati dal tempo e la particolare sensazione che trasmette tenendola in mano  non sono elementi estranei da nascondere oppure da correggere. Essi invece la connotano, la pongono in uno specifico contesto e le conferiscono un’identità precisa. In altre parole, ne sostanziano la natura di documento, donandole un’atmosfera che la rende unica. Ogni tentativo di modernizzarla, di aggiornarla o anche solo di renderla aderente al gusto ed ai criteri attuali è un’ operazione non solo scorretta ma anche inutile e quindi fatalmente votata all’insuccesso.
Se tuttavia devo mettermi in viaggio, mi procuro la più aggiornata carta stradale che posso trovare, e bado anzi che utilizzi i criteri ed i metodi di rappresentazione più efficaci e moderni. Inoltre non ho nessuna esitazione ad aggiungervi note e segni, a strapazzarla oppure ad appiccicarvi sopra dei foglietti, se questo contribuisce a farmi arrivare con sicurezza a destinazione.
Qual’è la differenza? Nel primo caso si tratta di un recupero culturale, ovvero entro in relazione con un oggetto vedendovi principalmente un testimone di civiltà, al di la di qualsiasi beneficio concreto. Nel secondo si tratta di un’azione che avviene qui ed ora, di cui sono contemporaneamente protagonista e beneficiario: non vado infatti a milonga per vedere gli altri prodursi nella danza (come accadrebbe ad esempio a teatro) ma per farlo io stesso. Realizzo cioè un’azione che ha i caratteri del “qui ed ora”, in quanto avviene nel presente e si sostanzia nella cultura dell’oggi: un critico senza pregiudizi la collocherebbe senza esitazione nella performing art.
Ecco quindi il punto nodale: a prescindere da ogni possibile giudizio di autenticità e di valore, mi sembra che il tango dell’epoca d’oro sia prima di tutto il portato di una particolare atmosfera culturale, dunque perfettamente rappresentativo di uno specifico ambiente nonché del tutto organico ad una ben determinata epoca. Stupenda finché si vuole, ma di certo non la mia. Se dovessi studiarlo ne sarei probabilmente affascinato, esattamente come io stesso sono realmente sedotto da un varietà di manifestazioni della civiltà umana che oggi risultano non attuali. Poiché invece desidero usarlo mi sembra sensato lasciarlo li dove sta. Una volta che si sia persa di vista la forza dell’idea originaria, la ripetizione di un contenuto provoca di solito un impoverimento e un’inevitabile perdita di vitalità. Si pensi ad esempio ai tanti ceramisti artigiani che realizzano stoviglie e oggetti da tavola riproducendo serialmente un disegno tradizionale. Per quanto il modello possa essere illustre, l’esecuzione impeccabile o la tecnica eccellente, l’esito risulta perlopiù senz’anima, a meno che l’artefice non vi infonda qualcosa di suo. Se ciò non accade l’esito è una cosa morta, semplicemente sopravvissuta a se stessa. Molte delle espressioni umane consegnateci dal passato conservano un indiscutibile valore, espresso in una forma che non sentiamo più nostra, di cui dunque ci suonerebbe falso e artificioso l'uso contemporaneo. Sentiamo quindi che possiamo, anzi dobbiamo, cercare di essere creativi in altri modi.
Perché noi oggi non costruiamo piramidi o innalziamo cattedrali gotiche? Non certo perché difettiamo di capacità o siamo mancanti di mezzi tecnici, semplicemente perché quell’atmosfera spirituale oramai non ci appartiene più, dunque la tensione e lo slancio che animava quegli straordinari costruttori risulta per noi  inattingibile. Ciò non significa che oggi siamo inferiori agli egizi del medio regno o ai tagliapietre del trecento. Sentiamo dunque che possiamo, anzi dobbiamo, essere creativi in altro modo: le nostra energia non è si è spenta, viene semplicemente indirizzata altrove, ragion per cui gettiamo ponti sospesi e innalziamo dighe.
Per le stesse ragioni nessuno balla a scopo sociale e ricreativo le antiche danze di corte del XVIII secolo. Ciò non accade certamente perché ne abbiamo perso la memoria (sopravvivono infatti trattati e spartiti) ma perché il mondo di cui esse erano espressione risulta definitivamente scomparso: esse quindi sono mute alla nostra anima, dunque nessuno ne sente il bisogno. Possiamo quindi comprenderle con la mente razionale, ma non sentirle con il cuore. All’opposto, ritengo che il tango sia un fenomeno assolutamente vitale e che la sua storia sia invece un divenire continuo. A differenza del minuetto e della gavotta, esso ha invece raggiunto il nostro tempo trasformandosi ed evolvendosi senza sosta. Ciò non mi sembra affatto uno scadimento bensì proprio l’elemento che lo rende meritevole di attenzione. La fissità immutabile è invece propria delle cose morte e l’unico modo per rendere una creatura vivente perennemente uguale a sé stessa è quella di ucciderla, trasformandola in una reliquia. Ma le reliquie non si usano, si venerano a rispettosa distanza, magari le si maneggia con reverenti mani coperte da candidi panni e la stessa idea di modificarle appare empia e sacrilega.

Su creatività e tradizione
Dal mio personale punto di vista, mi sembra infatti che quella del musicalizador sia prima di tutto un’attività di tipo creativo e solo secondariamente pedagogica. In altre parole, chi decide l’atmosfera musicale di una serata mira sostanzialmente ad esprimere se stesso ed a suscitare il gradimento delle persone in sala, senza necessariamente sentirsi vincolato al rispetto di norme e di criteri che non siano quelli funzionali al risultato che egli ha in mente. “S'ei piace, ei lice", sosteneva già Tasso. L’idea che il valore di un atto creativo si misuri con la diligente fedeltà ad un modello, benché illustre, mi sembra infatti del tutto estranea alla cultura del nostro tempo oltre che essere un’affermazione evidentemente auto-contraddittoria.
Detta in termini diversi, affermare che propongo un falso tango perché non mi sento vincolato al repertorio delle incisioni storiche è come dire che noi non usiamo la vera lingua italiana poiché parliamo e scriviamo diversamente da quanto faceva Manzoni. Se davvero questa argomentazione fosse fondata, i romanzieri di oggi potrebbero scrivere soltanto testi che abbiano protagonisti dei giovani fidanzati, siano ambientati in una città della pianura padana e contengano riferimenti a malattie infettive.
Scrivere libri e decidere una scaletta musicale rientrano invece nelle attività creative, dunque sono tanto libere nel fine quanto libere nei mezzi. La proposta di un percorso musicale che sia allo stesso tempo filologicamente corretto e storicamente rappresentativo è senza dubbio legittima e sicuramente possibile, ma rientra, a mio modesto avviso, tra i compiti di musicologi e critici. Poiché non appartengo né all’una né all’altra categoria, mi astengo dal farlo.
Mi sembra invece legittimo procedere nella direzione opposta, come minimo avendo davanti gli occhi una serie di fenomeni ricorrenti nella cultura europea. Non appena si delinea un sistema di generi, quando si sedimenta un canone oppure nel momento in cui si forma l’abbozzo di un sistema normativo, allora nasce regolarmente il desiderio di tentare intersezioni fra settori rigidamente separati oppure di sperimentare un sovvertimento delle norme, il quale va dai più impalpabili scostamenti alle più eclatanti trasgressioni. Spesso il risultato di quest’operazione si rivela interessante, e – in prospettiva – fecondo. Thomas Gainsborough dipinse il celeberrimo Blue Boy (c. 1770) come risposta polemica alle teorizzazioni del rivale Joshua Reynolds. Egli raccomandava di usare esclusivamente i colori caldi per i primi piani riservando invece le tinte fredde - ed in particolari gli azzurri - ai soli sfondi, il tutto prendendo sempre a modello la più illustre tradizione italiana. Gainsborough infranse consapevolmente la norma applicandola a rovescio ed il risultato fu uno dei più acclamati capolavori della pittura inglese del XVIII secolo.


Il tutto ovviamente ha dei limiti precisi. Come si può scrivere un saggio sulla follia senza usare una sintassi da alienati, così mi sembra lecito inserire anche delle proposte provocatorie ma rispettando i limiti della coerenza interna, dell’effettiva ballabilità e soprattutto del buon senso. Il confine fra originale e stravagante mi sembra infatti assai tenue: c’è quindi il rischio di vendere la propria incompetenza come libertà, la cialtroneria come spirito creativo, l’imprudenza come apertura mentale. Ovvio che un risultato felice presupponga sempre una verifica costante del gradimento poiché altrimenti si rischia un discorso completamente autoreferenziale, paragonabile  forse al compiaciuto intellettualismo di certa letteratura.
Sempre in tema di letteratura, credo che un moderno musicalizador abbia qualcosa da imparare dalla drammaturgia in lingua inglese, dove si può mettere in scena un dramma di Shakespeare preoccupandosi essenzialmente della fedeltà allo spirito del testo, senza per altro sentirsi vincolati dalle specifiche convenzioni del teatro elisabettiano, in cui per altro quel testo affonda le sue origini. Accade così di vedere allestimenti persino anacronistici, in cui compaiono ad esempio oggetti o abiti contemporanei, senza che nessuno gridi al crucifige.




Compito del regista di un opera teatrale non è quello di riprodurre scrupolosamente il lascito di un passato illustre, ma di trovare il miglior compromesso possibile fra l’intenzione ultima dell’autore, la tradizione rappresentativa (ovvero l’idea condivisa di come quell’opera vada messa in scena) e infine il suo personale apporto creativo. A seconda delle circostanze, l’uno o l’altro aspetto prevale.

Permette l’aceto balsamico sulle fragole? Una divagazione sulla gastronomia
Alcune proposte culinarie fuori dal comune sembrano assolutamente immangiabili quando vengono descritte, ma risultano invece sorprendentemente appetitose nel momento in cui si supera il pregiudizio culturale e ci si accosta al nuovo con curiosità ed apertura. Anzi, proprio il gradimento segnala in modo incontestabile l’avvenuto allargamento degli orizzonti. Allo stesso modo alcune proposte musicali possono sembrare delle stravaganze fine a se stesse finché non si mette da parte la diffidenza e si prova a ballarle, scoprendo magari l’intima soddisfazione nell’averle interpretate.
Credo infatti che l’inserimento di una proposta inusuale, creativa o anche dichiaratamente provocatoria, sia infatti positivo in ogni caso. Se la novità è stata gradita il risultato è in attivo, poiché la persona ha scoperto qualcosa di bello che prima non conosceva. In caso contrario ne risulta comunque un guadagno, avendone pur sempre ricavato una più esatta perimetrazione del proprio gusto personale e una convinzione più solida nel difendere le proprie scelte, sempre nei limiti del rispetto reciproco.
Mi sembra a questo proposito che il paragone più sensato sia ancora una volta con la cucina. Nella stessa città possono tranquillamente lavorare  dei cuochi attenti ai ricettari più tradizionali ed altri chef dediti alle più ardite sperimentazioni della cucina creativa. Gli uni potrebbero guardare agli altri con reciproca diffidenza, ma i secondi di certo reagirebbero con sorpresa alla contestazione di proporre una gastronomia ingannevole solo perché essa non rientra in una definizione preordinata oppure perché le loro preparazioni non figurano nei ricettari di Artusi. Essi sono dunque simili benché non intercambiabili: accomunati dalla condivisione di un insieme di elementi comuni sentono di appartenere alla medesima categoria, ma se si scambiassero di posto essi si troverebbero senza dubbio a disagio.

Conclusione. Fra dadaismo e grammatica
Con una certa audacia, si potrebbe forse dire che le proposte di un musicalizador creativo siano una sorta di ready-made musicali. Un oggetto, magari prodotto in serie e dichiaratamente privo di valori estetici, si trasforma in arte per autonoma decisione dell’artista stesso, nel momento stesso in cui egli lo presenta al suo pubblico. L’opera non è quindi data dall’oggetto in sé, talvolta misero e banale, bensì dalla rivelazione della creatività umana in quanto valore autonomo, come pure dal processo mentale che è sotteso in chi osserva.
Far passare a milonga una musica che non sia nemmeno tango, magari neanche pensata per essere ballata, soddisfa non solo la naturale inclinazione umana alla novità ed alla varietà ma costituisce anche un invito sottile ma perentorio a lasciarsi dire qualcosa, a mettere temporaneamente da parte le proprie convinzioni, a esplorare territori nuovi. Lo stesso percorso che nasce dal contemplare un orinatoio di porcellana: ci spiazza, ma ci costringe ad usare occhi diversi, a rompere gli schemi mentali, liberando fantasia ed immaginazione.

Marcel Duchamp, Fountain, 1917. L’artista sceglie oggetti comuni, privi di valore intrinseco, e ne rivela al pubblico le qualità estetiche mediante la loro semplice ostensione.

Allo stesso modo il musicalizador creativo rivela al frequentatore di milongas il valore di brani che egli mai avrebbe pensato di poter ballare con soddisfazione, semplicemente inserendoli nella sua scaletta musicale.
Da molto tempo si è ormai abbandonata l’idea di una grammatica prescrittiva, con cui determinare delle norme rigide stabilite a priori, accogliendo invece la moderna nozione di grammatica descrittiva. Padroni della lingua non sono le accademie bensì i parlanti, i quali la plasmano liberamente sulla base dell’uso. La grammatica è quindi il deposito e la lenta sedimentazione di una prassi.
Parafrasando quanto appena detto, si può affermare i padroni della musica da tango sono le persone che se ne servono per ballare. Non esiste quindi nemmeno un vero e un falso tango, tanto che la stessa questione mi sembra solo un lambiccato sofisma. Si possono semmai discriminare - e qui ammetterei, al limite, la nozione di “falso” -  tutte quelle esperienze che nascono da una semplificazione truffaldina, da una distorsione deliberata, da un volgarizzamento senza criterio oppure dalla più furfantesca cialtroneria. Ma giunti fin qui credo di aver dimostrato a sufficienza, se non la mia tesi, perlomeno la mia capacità di argomentare in modo persuasivo. Esiste semmai una sorta di darwinismo musicale, ovvero una scelta musicale che si rivela gradita e apprezzata dal pubblico (la quale tende a venir riproposta e si riproduce per emulazione) e una che invece non lo è, destinata invece ad un progressivo oblio.
Tanto per restare in tema ci si potrebbe ad esempio chiedere se l’inglese americano sia più o meno “vero” (uso di proposito le virgolette) dell’inglese britannico. Per la linguistica una simile domanda non ha nemmeno senso, poiché l’idea di degenerazione o di crescita di un idioma in termini di valore è del tutto estranea. Le lingue semmai si differenziano progressivamente tra loro, e non c’è alcuna differenza qualitativa tra il cosiddetto “BBC English” e un qualsiasi pidgin africano.
Mi pare quindi che fra il tango dell’epoca d’oro e le espressioni del contemporaneo ci sia lo stesso rapporto che intercorre fra l’aulica solennità di una lingua letteraria – pensata come perfetta e ormai cristallizzata dalla venerazione - e l’espressivo dinamismo di un idioma corrente. Esso accoglie parole straniere, conia neologismi, esplora tutti i possibili registri, include persino il triviale e il bizzarro, tollera errori che a poco a poco si sedimentano come nuove norme, finché si afferma un nuovo uso e così via all’infinito.
Palazzeschi, Slataper e Gadda -  andate a curiosare in biblioteca - stanno sulle stesso scaffale di Manzoni.

P.S. Questo articolo è stato scritto per scommessa, sostenendo che sarei stato capace di stendere un testo originale sul tango illustrandolo in modo coerente con le foto di un cesso e di un frigorifero Bosch.

14 commenti:

  1. simpatico ecomplice dite stesso :) ieri davano lafinestra sulcortile di ferzan ozpetek con g vanna mezzogiorno raul bova. bello ilfanciullo delquadro dithomas gainsborough

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  2. bellissimi ifrigi bosch. quasi un pomi dispiace si ci fai dispiacere che il bel fanciulo del quadro dithomas gainsborough resti nelquadro freddoe non esca per chiedermi di ballare. comunque certe tue uscite freeze.. hannoun ottioeffetto lassativo io suggerirei quest articoloa chi ha stitichezza mentre si alambicca a tradurre il tuo paragone con orinatoio duchamp.. alcunitermini ch tu utilizzi facilitano il transito intestinale. d assaggiare insomma!

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  3. e' un po' lagnoso...peccatoche il bel fanciullo deipinto da thomas gainsbourgh resti intrappolato frmo nelsuo quadro e non possa uscire per chieder aduna dinoi se puo farci fare un ballo,peccato sul serio.

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  4. L'analogia moda-tango non è felice, nemmeno quella della cucina. La moda va fatta per essere usata. La musica post-moderna, post epoca d'oro e stata scritta per essere ascoltata, Piazzolla stesso lo diceva, non faceva musica per ballare. Oggi non ci sono letristas e musicisti creativi che compongono tanghi per ballare. Questa creatività è finita negli anni 50 per diversi motivi. A Buenos Aires l'erede del tango -- come musica e parole che interpretano la realtà del porteño -- è stato il rock urbano cantato in argentino, e questa è una altra musica che non c'entra con la milonga. Forse Piazzolla e Ferrer hanno fatto qualcosa ma loro stessi dicono che non era musica per ballare. Poi, la musica dall'anno 1900 al 1950 non è una "minorità creativa", studiate e vedrete che il panorama musicale (ballabile) è infinitamente ricco. In genere si mettono poche orchestre ed i DJ non ne sanno abbastanza. E' penoso vedere ballerini ballare tango nuevo, non è tango sociale, è molto difficile, è come se ci mettessimo a ballare danza classica senza sapere. Solo Frumboli, Arce e pochi altri che praticano ore al giorno possono ballare il nuevo con una certa decenza e poi, anche loro, nelle milonghe ballano come tutti noi: tango sociale. Anche questo non è facile, ci sono infinite possibilità che dipendendo della musicalità dell'orchestra. Chi non sa ballare chiama la straordinaria musica di Biaggi marcette e sono gli stessi che chiedono "tango nuevo" come "Otros aires", "Gotan", "tango greco" etc. Potremmo ballare musica contemporanea quando verrà composta per ballare tango sociale, per far questo devono tornare i Cadicamo's i Di Sarli's, i Fresedo's, i Canaro's perché il tango non esiste più. Il "nuovo" e di bassissima qualità e non adatto per ballare. Imparate prima a ballare quello che chiamate il tango tradizionale, bene, con ogni orchestra e con la sua musicalità. Siccome questo è un processo a non finire, dove si scopre sempre qualcosa di nuovo, vedrete che sarà molto gratificante e che non c'è bisogno di ballare Gotan o proporre Gotan in un milonga per sentirsi all'avanguardia e pretendere che si sta inventando non si sa che cosa di creativo. E poi, chi è il musicalizador creativo? Chi propone Goran Bregovich, Otros Aires, Mozart in milonga? Dove i ballerini sembrano degli zombi, e credono di ballare bene l'ultima moda del tango? E' ridicolo.
    Il TDj che mette musica tradizionale non e creativo? Ci sono infinite possibilità, studiatele e vedrete che quell'universo è infinito. Innovatori seri? Purtroppo non ci sono e se ci fossero andrebbero nella direzione non uguale ma parallela al tango tradizionale, e bisogna cercare ancora per scoprirla.

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    1. Giusto Jose... E' già difficile ballare Sarli, Canaro Fresedo con gusto...Oggi si ballano i Tanghetto. Otros Aires bravissimi musicisti per carità, ma il tango sociale-tradizionale è un altra cosa ! Frumboli, Arce, sono un'altro pianeta e possono ballare tutto anche il milonguero...in milonga ;)
      ciao
      Alberto

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  5. Caro Dr.Zero lei tocca in questo illuminato articolo uno dei tasti dolenti dell'evoluzione del tango in terre lontane dal Rio de la Plata. Ineccepibile l'argomentazione anche se cessi e frigoriferi mal si adattano a spiegare quello che invece l'antropologia culturale potrebbe fare con facilità. Il tango cresciuto con grande fatica dove nacque, si diffuse solo alla sua quarta generazione anche al di fuori dell'Argentina dopo essersi quasi estinto a causa del poco illuminato governo militare alla metà degli anni 70. Va chiarito che il tango coinvolge nella Capitale Federale al più 20.000 persone su una popolazione di circa 12.800.000 anime che considerano il tango una nicchia culturale. Un impulso recente (2009) ha stabilito il tango patrimonio
    dell'umanità ma non comprendeva di certo l'avanguardia friulana.
    Intorno al 2000 i tangueri argentini hanno sentito la necessità di avvicinare al tango i giovani perché i pochi che lo praticavano non bastavano ad assicurargli la sopravvivenza. Coppie di bravi ballerini sbarcavano il lunario esibendosi per la gioia dei turisti ma con la caduta del pesos dovettero darsi all'insegnamento in mancanza di lavoro nei caffé. Ballavano solo i turisti ed una popolazione di vecchi tangueri destinati all'estinzione. Tra il 2000 ed il 2004 l'imperativo era portare i giovani alla milonga. Nacquero luoghi come il "Galpon", la "Catedral" dove la musica dei Gotan e di Piazzolla trova spazio tra una tanda di Pugliese ed una di Cáceres. Gotan: primo CD di tango moderno con alcuni pezzi ancora ballabili. Tutti quelli che seguirono furono d'ascolto e da meditazione.
    Altri bravi musicisti argentini si sono cimentati
    nelle cover facendo anche evoluzione ma creando musica non sempre ballabile nel rispetto della ronda e delle coppie in sala, adatta forse ad un tango da guardare più che da sentire
    interiormente. Virtuosismi tangueri da esibizione professionistica.
    Dove andrà a finire il tango lo decideranno i giovani argentini, che fortunatamente non si limitano solo a spennare i polli tangueri dell'emisfero nord, noi possiamo solo restare ad aspettare. In Friuli Venezia Giulia siamo alla prima generazione tanguera. I primi neofiti vantano esperienze dal 1985, quelli che hanno iniziato intorno 1995 si contano sulla punta di due dita, noi del '99 non arriviamo a cinque tutti gli altri, nel tango, sono arrivati dopo. Non si può fare pionierismo senza conoscere le radici della passione. Il commento della signora citata in apertura
    dell'articolo è assolutamente gratuito essendo frutto della totale assenza della minima conoscenza tanguera. Se parliamo di tango dobbiamo accettare anche i suoi codici. Se non si accettano codici e tradizioni tanto vale chiamare
    la propria attività con un altro nome di libera e creativa scelta.
    Io ho sessant'anni e mi sento perfettamente integrato nel
    contesto del tango tradizionale e sociale e soprattutto rivendico il diritto di divertirmi come meglio credo.
    I Dj illuminati promuovono le loro serate senza nascondersi dietro a buffet, giochi e cotillon; i ballerini di buon gusto scelgono con la propria testa con chi ballare.

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  6. Caro Dr.Zero lei tocca, in questo arguto articolo, uno dei tasti dolenti della storia del tango in terre lontane dal Rio de la Plata. Ineccepibile l'argomentazione anche se cessi e frigoriferi mal si adattano a spiegare quello che invece l'antropologia culturale potrebbe fare con facilità.
    Il tango, cresciuto con grande fatica dove nacque, si diffuse solo alla sua quarta generazione anche al di fuori dell'Argentina dopo essersi quasi estinto a causa del poco illuminato governo militare alla metà degli anni 70. Va chiarito che il tango coinvolge nella Capitale Federale al più 20.000 persone su una popolazione di circa 12.800.000 anime che considerano il tango una nicchia culturale. Un impulso recente (2009) ha stabilito il tango patrimonio dell'umanità ma non comprendeva di certo l'avanguardia friulana.
    Intorno al 2000 i tangueri argentini hanno sentito la necessità di avvicinare al tango i giovani perché i pochi che lo praticavano non bastavano ad assicurargli la sopravvivenza e parte della sua cultura si sarebbe potuta perdere. Coppie di bravi ballerini sbarcavano il lunario esibendosi per la gioia dei turisti ma con la caduta del pesos dovettero darsi all'insegnamento in mancanza di lavoro nei caffé. I più fortunati ed abili cominciarono ad emigrare in tourné attirati dai forti guadagni e dalla continua richiesta di tango soprattutto proveniente dall'Europa. Il tango tornò in Europa, questa volta non per essere consacrato, come nel 1925, ma per essere fonte di introiti. A Buenos Aires ballavano solo i turisti ed una esigua polazione di vecchi tangueri destinati all'estinzione. Tra il 2000 ed il 2004 l'imperativo fu portare i giovani alla milonga. Nacquero luoghi come il "Galpon", la "Catedral" dove la musica dei Gotan e di Piazzolla trova spazio tra una tanda di Pugliese ed una di Cáceres. I giovani durante il giorno frequentavano i corsi di tango tradizionale dai "vecchi" maestri e la sera sperimentavano il nuevo nelle milonghe alternative su musiche emergenti e non. I Gotan Project, nel 2001, diffusero il primo CD di tango moderno
    con alcuni pezzi ancora ballabili. Tutti quelli che eguirono
    furono d'ascolto e da meditazione. Altri bravi musicisti argentini, nel frattempo, si cimentarono nelle cover e produzioni originali ma non sempre ballabili nel rispetto della ronda e delle coppie in sala, destinate forse alle esibizioni acrobatiche di coppie professionistiche. Dove andrà a finire il tango lo decideranno i giovani maestri e
    musicisti argentini, che fortunatamente non si limitano solo
    a spennare i polli tangueri dell'emisfero nord; noi possiamo solo restare a guardare ed aspettare. In Friuli Venezia Giulia siamo appena alla prima generazione tanguera. I primi neofiti vantano esperienze dal 1985, quelli che iniziarono intorno al 95 si contano sulla punta di due dita, noi del 99 non arriviamo a cinque tutti gli altri sono arrivati dopo. La strada per questi ultimi è ancora lunga. Non si può fare pionierismo senza conoscere le radici della propria passione. Lo dimostrano bene i giovani tangueri argentini, figli di tangueri, che hanno avuto nelle orecchie i vecchi tanghi fin da piccoli. Il commento della signora citata in apertura dell'articolo è totalmente gratuito essendo frutto di una totale mancanza di conoscenze sul tango argentino. Se parliamo di tango dobbiamo accettare anche i suoi codici. Se non si accettano codici e tradizioni tanto vale chiamare la propria attività con un altro nome di libera e creativa scelta. Il tango argentino è ben altro.
    Io ho sessant'anni e mi sento perfettamente integrato nel contesto del tango tradizionale e sociale e soprattutto rivendico il diritto di divertirmi come meglio credo. I Dj illuminati promuovono le loro serate senza nascondersi dietro a buffet, giochi e cotillon; gli organizzatori di milonghe posso scegliere come i ballerini di buon gusto scelgono con la propria testa con chi ballare.

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  7. Tangosauri.. tornate nelle catacombe..

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  8. Credo che gli argentini sarebbero i primi a sogghignare soddisfatti di fronte all'inchino di quel "dove va a finire il tango lo decideranno i giovani argentini". E' un vero peccato che il simpatico Jose non colga la contraddizione in quello che dice: se è vero che i giovani argentini sono quelli stessi che ci spennano spacciandoci (spesso solo per diritto di cittadinanza) per maestri, se ne evince che, alla fine di tutto, a farla da padrone è ancora una volta il profitto, in nome del quale tutto questo omaggio alla tradizione puzza un po' di ipocrita: siccome non conosci non puoi parlare, ma, alla bisogna, ci sono qua io, che ho diritto di parola perché so, a insegnarti ciò che devi sapere. Ma non si stava parlando di un gioco? Difficile, trascinante, ma pur sempre un gioco e come tale aperto a chiunque, nel rispetto delle regole della buona educazione, lo voglia giocare? O devono giocare solo i bravi? E chi decide chi è bravo e chi no? I giovani argentini?

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    1. Gentile sig.ra Paola, tranquillizzi il suo naso,
      la puzza che sente non è la mia ipocrisia, il
      mio é solo desiderio di capire meglio come sono
      andate le cose. I maestri nostrani ed i cinque spenna polli con passaporto
      argentino che arrivano alle nostre latitudini traggono i loro profitti ma non
      sono gli stessi che cambieranno una filosofia di vita
      che va oltre la danza e fa parte di un tessuto sociale
      ben più vasto. La tanghitudine non ci appartiene e noi dobbiamo
      viverla, appunto, come un gioco e come tale vanno conosciute
      e rispettate le regole altrimenti ci troviamo a praticare
      un surrogato di quello che credevamo fare. Come in ogni gioco ci
      sono i bravi ed i meno bravi, ma in questo, per esempio,
      non si vince. Si partecipa solo se si condividono
      le conoscenze, altrimenti vale la pena chiamarlo con un
      nome diverso, non tango.

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  9. Testo ben articolato e ben scritto .....opinabile sul piano pratico la sua applicazione oltre che eccessivamente intellettualoide più che intellettuale ! Un unico appunto : in milonga il musicalizador dovrebbe ( ma solo a mio avviso , ovviamente e per quel che vale come tale...!) respiare la pista , viverla ed interpretarle e non solo recitare il suo copione : questo può andar bene per una conferenza sul tema ( e ne potremmo discettare) ma scegliendo il luogo adatto e, dopo aver elencato i nostri titoli accademici , passando a toni meno aulici da folgorati sulla via di Damasco!

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  10. mi sono commosso nel leggere questa scrupolosa e intelligente analisi critica del Dr. Zero. Mi son fatto due risate nel leggere gli ampollosi commenti che partono sempre con un giudizio da "superiori". Non posso che ringraziare Dr. Zero. Grazie grazie e ancora grazie. Questo si chiama far cultura!!

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  11. Premetto il mio rispetto per Dr. Zero: se tutti i sostenitori dell'innovazione avessero lo spessore culturale e l'acutezza analitica dimostrata in questo articolo, le discussioni sarebbero di gran lunga molto più interessanti e non si ridurrebbero (come ahimè spesso succede) a liti da stadio tra buzzurri.

    Ciò premesso, mi permetto di aggiungere un argomento ai numerosi elencati da Dr.Zero.
    E' vero che nessuno veste abiti degli anni '50 pur ammettendone il valore. E' vero anche che ora si usano navigatori GPS invece che mappe di pergamena, e che in generale utilizziamo oggetti che hanno lo stesso nome di altri oggetti del passato pur essendo profondamente diversi, e questo perchè ne conservano la FUNZIONE.
    Il binomio nome-funzione è universalmente riconosciuto e nessuno si sogna di mettere in discussione il fatto che un macinacaffè elettrico non abbia diritto di chiamarsi macinacaffè solo perchè non ha una manovella.

    Ma siamo sicuri che lo stesso valga per un'espressione culturale?
    Senza voler mettere in discussione il valore dell'evoluzione, siamo sicuri che il momento dell'evoluzione non sia meritevole di un cambio di nomenclatura?

    Per fare paragoni più attinenti che non frigoriferi e macinini da caffè, se pensiamo all'evoluzione dei balli in america nel secolo scorso, è evidente che a periodi diversi e con l'evolvere di stili musicali e l'adattarsi degli schemi di ballo, anche i nomi sono cambiati: jive, lindy hop, boogie, rock'n'roll.

    Questo non è chiaro: stante il fatto che i passi sono cambiati, l'estetica è cambiata e le musiche sono cambiate, perchè un ballo che si balla su musiche diverse e con schemi differenti dovrebbe conservare il nome di un ballo precedente?

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  12. Sono andato a un concerto di musica classica: sala ben arredata, pubblico elegante... Peccato che rovinassero tutto suonando roba dell'Ottocento... Mah

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