martedì 21 febbraio 2012

Psicotangoterapia. Danzare nell'abbraccio per cambiare, di Edoardo Giusti e Veronica Marsiglia

Per taluni la pratica sociale del tango è un’esperienza straordinariamente appagante. Molti affermano di averne tratto consistenti benefici in termini di benessere, migliore comprensione di sé, sviluppo personale, e tutto questo a tacere di altri aspetti sicuramente apprezzabili come quelli motori e ricreativi.
Perché quindi il tango piace così tanto? Cosa lo distingue dalle altre danze? Perché è in grado di suscitare emozioni così forti in chi lo pratica? E possibile utilizzarlo come uno specifico approccio terapeutico?
Sono queste le questioni da cui Giusti e Marsiglia sono partiti per approdare a Psicotangoterapia. Si tratta di un articolato percorso fra teoria psicanalitica e pratica clinica che si conclude con la descrizione del particolare approccio terapeutico sottointeso dal titolo, percorso a cui è anche dedicato un blog tematico che aggiorna su novità e appuntamenti (http://psicotangoterapia.blogspot.com/)
Già un semplice sguardo alle informazioni editoriali rende subito evidente la particolare collocazione del volume. Si tratta di una monografia specialistica nel settore della psicologia applicata, pubblicata in una collana dedicata ai professionisti della relazione d’aiuto. Il modello di riferimento è la cosiddetta psicologia della Gestalt, intraducibile germanismo che si può rendere all’ingrosso come forma, conformazione, struttura. Essa sottolinea come le esperienze umane non siano mai scomponibili in costituenti elementari, bensì il risultato di una complessa organizzazione unitaria, una Gestalt appunto. Gli stimoli provenienti dall’ambiente vengono organizzati in modo da produrre significati ben strutturati, completi e dotati di senso così da costruire un tutto che è sempre maggiore della somma dei suoi elementi costitutivi. Si tratta, in prima approssimazione, di un olismo metodologico, in particolare per l’assunto di considerare individuo e ambiente come parti inseparabili di un unico sistema, come pure per il rifiuto di qualsiasi delimitazione artificiosa fra la sfera fisica, psicologica, intellettuale, emotiva, relazionale e spirituale, così da considerare invece l’intera esperienza di vita di una persona nella sua totalità.
L’applicazione di questo modello al tango è stata senza dubbio feconda. In senso generale viene proposta un’esplorazione dei benefici che appartengono alla pratica della danza, in senso specifico è offerta una fine analisi di quegli aspetti terapeutici che gli autori accreditano al tango in quanto tale, non essendo immediato ritrovarli in altre forme espressive. Una specifica sezione del libro è dedicata ai risultati di sperimentazioni sul campo e di applicazioni mediche in senso stretto, ovvero l’uso del tango come terapia di sostegno alle forme più potentemente invalidanti di malattia.

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Di tangoterapia – va detto - si parla già da tempo. Il lavoro principale dello psichiatra argentino Federico Trossero è stato tradotto in italiano nel 2008, lo stesso anno delle esperienze cui hanno collaborato Monica Gallarate e Giorgio Proserpio, e tutto questo a tacere di un molteplicità di appuntamenti di cui i media hanno dato notizia di tanto in tanto. La proposta di Giusti e Marsiglia si presenta quindi, in modo corretto, come rielaborazione, sistemazione e sviluppo di contributi già esistenti e va senza dubbio dato merito ai due autori di aver trovato un eccellente equilibrio fra il rigore scientifico e la chiarezza espositiva.
La comprensione approfondita del testo richiede qualche elemento di psicologia, ad esempio la dualità jungiana animus/anima, mentre quando gli autori sottolineano la possibilità di rassicurare la bambina della tanguera, il riferimento non è alla pargoletta affidata alle cure di una volonterosa babysitter mentre la madre è a milonga, bensì al modello teorico dell’analisi transazionale teorizzato negli anni 50 dal canadese Eric Berne.
La lettura dell’opera rimane comunque scorrevole senza essere gravata da eccessivi appesantimenti. Tutte le argomentazioni appaiono persuasive e soprattutto ribattono anticipatamente ad una delle più comuni obiezioni che nascono da un proliferare a volte fantasioso di proposte, siano esse fondate su un’attività, sulla relazione con un essere vivente, come pure sulle proprietà vere o presunte di un oggetto fisico. Al giorno d’oggi non è difficile provare la sensazione che il suffisso –therapy tenda a diventare un etichetta di comodo da applicare più o meno a qualsiasi cosa, spesso con logiche opinabili. Se tutto cura, allora nulla cura.
L'esposizione è invece presentata in forma rigorosa, con richiami ai modelli che sono propri delle scienze cui si aggiungono i risultati del lavoro sul campo o la discussione di trial clinici. Il testo si inserisce in uno specifico filone interpretativo che vede la milonga non tanto come semplice contenitore per le attività ricreative di un gruppo, bensì come una microsocietà regolata da norme relazionali proprie: il modello utilizzato fra gli altri da Haim Burstin, non a caso citato più volte nel corso del saggio. Visione che enfatizza gli aspetti comunicativi e relazionali, arricchita dalla specifica visione gestaltica che conduce ad esiti di grande suggestione. Se l’approccio tradizionale si era focalizzato sulla coppia di ballerini, Giusti e Marsiglia seguono un modello a tre: l’uomo e la donna che danzano più il terzo che osserva. Quest’ultimo è inteso nella doppia polarità di osservatore specifico e persona collettiva, ovvero la totalità del pubblico che circonda la pista.
Non meno coerente appare l’enfasi sulla dimensione evolutiva. Una delle metafore più felici è infatti l’associazione con Giano, il dio bifronte con una faccia rivolta al passato ed una al futuro. La proposta del libro ha quindi l’aspetto di uno snodo. Si approda al tango accompagnanti da un vissuto, da un’esperienza, ma allo stesso tempo ci si apre al futuro, verso nuovi e diversi orizzonti, in una prospettiva che ha in sé la speranza in qualcosa di diverso e migliore, ovvero un bene pensato come esistente, che è quindi ragionevolmente sperabile di ottenere. Si tratta di una posizione di fiducia realistica, che prende le distanze sia da risposte illusoriamente facili a problemi complessi, magari all’insegna del “tutto e subito”, sia dalla negazione sistematica di ogni speranza e di ogni fiducia nelle possibilità umane. È una linea che può essere meglio compresa tenendo sullo sfondo i messaggi proposti da altri testi recensiti negli ultimi mesi: il disarmante senso di fine del gioco testimoniato da Syusi Blady, la demistificazione programmatica di ogni abbellimento posticcio dell’esperienza in una cornice di ferrigna rigidità, che è grossomodo la posizione di Raffaella Passiatore o la celebrazione di una futile superficialità inconcludente fatta da Carlo Rossella.
Il tutto viene collocato in un’altra e diversa prospettiva anche leggendo le pagine che Giusti e Marsiglia dedicano alle applicazioni terapeutiche in senso stretto. Sono passi che vanno accostati con prudente rispetto, al di là delle personali convinzioni sull’efficacia del metodo, o in qualunque modo si prenda posizione sulla dibattuta questione degli approcci farmacologici al disagio. Oltre le parole, in una sorta filigrana, si delinea un universo oscuro che di solito sfiora solo marginalmente il mondo più o meno rassicurante delle nostre esistenze quotidiane: l’infermità mentale, la dissoluzione dell’identità o la perdita del controllo del corpo che accompagnano le forme più gravi di malattie degenerative, oppure la stessa psichiatria istituzionale.

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Allargando il discorso credo che uno dei punti di forza del libro sia l’aver messo in evidenza le numerose analogie fra la milonga ed il laboratorio, inteso nell’accezione etimologica di luogo in cui si dispiega il labor, cioè lo spazio dove gli esseri umani imperfetti e fallibili mettono alla prova dei saperi pratici in vista di un obiettivo incerto, ma pur sempre collocato nella sfera del possibile. Dunque laboratorio psicologico per eccellenza, o meglio quello che risponde in modo particolarmente incisivo ai bisogni della contemporaneità, in particolare a quelli comunicativi e relazionali. Mi sia concesso solo un piccolo ricordo personale: quando cominciai a ballare, in un periodo di maldestri e acerbi tentativi, più che il dischiudersi dell’armonia e della bellezza mi colpì un fatto apparentemente secondario: la sconcertante rivelazione che il corpo poteva servire a qualcosa d’altro che non portare a spasso il mio cervello.
Praticare il tango significa quindi non soltanto sperimentare nuovi movimenti, ma anche nuovi modi di essere, diversi ruoli e altre modalità espressive. Tutte vie difficilmente praticabili nella quotidianità, dove anzi il loro libero fluire deve fare i conti con solo con la rigidità interiore di ognuno, ma anche con regole di comportamento, modelli socialmente riconosciuti ed accettati, e questo a tacere dell’ostracismo che il gruppo riserva a chi non corrisponde alle aspettative, siano esse tacite o espresse.
L'esperienza di ballare a milonga è inoltre necessariamente connotata dall’autenticità, poiché nel tango il corpo non mente. L’affermazione può essere declinata in due modi: su un piano superficiale, nessuno può vantare a lungo una capacità che non possiede, poiché un’ipotetica menzogna non resisterebbe alla verifica dei fatti e sarebbe smascherata in poco tempo. Ad un livello più profondo è molto difficile barare con il linguaggio corporeo. Se il codice linguistico permette di dire “voglio stare con te” senza pensarlo realmente, il codice della danza non consente di mostrare fiducia all’altro se non la si sperimenta davvero. Similmente, è quasi impossibile far capire di essere rilassati quando non ci si trova davvero in quella particolare situazione. Detto in forma poetica, non si danza altro che la verità.

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Il percorso sin qui delineato non presuppone una macerante introspezione solitaria o la più canonica delle alleanze terapeutiche tra medico e paziente, bensì avviene in un normale contesto di relazioni umane, da cui la possibilità di trasporre il messaggio del libro in linguaggio sociologico. Si potrebbe ad esempio evidenziare come la frequentazione di una milonga permetta al singolo di tesaurizzare una forma specifica di capitale sociale, cioè l'insieme delle relazioni interpersonali che risultano essenziali per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate. Si tratta quindi di una risorsa intangibile, incardinata nelle relazioni che l'attore intrattiene nella società, una risorsa che – si badi bene – permette al singolo di raggiungere proprio quegli obiettivi personali non raggiungibili in sua assenza. Il capitale sociale è dunque un bene sia pubblico che privato: alcuni vantaggi ritornano direttamente a chi si adopera per crearlo, altri invece arrivano anche ad altri, agendo in ogni caso come moltiplicatore.
Robert Putnam (Rochester, 9 gennaio 1941) ha offerto una brillante analisi del capitale sociale distinguendo tra capitale umano che serra (bonding) o che getta ponti (bridging). Appartengono al primo caso le associazioni di categoria, i dopolavoro, i circoli su base etnica e confessionale ed in genere tutte quelle comunità umane che tendono all'isolamento e rinforzano l’identità di gruppi già di per sé omogenei. Fanno parte del secondo le associazioni culturali, i gruppi di volontariato, i cenacoli artistici in generale tutte le realtà che guardano all'esterno e raccolgono persone di diverso livello sociale attorno un interesse comune o ad un bisogno non altrimenti soddisfabile. In un caso si rafforzano i vincoli comunitari già esistenti (effetto collante), nell’altro si creano delle relazioni aperte a chiunque condivida le norme del gruppo (effetto lubrificante).
Mi pare che la pratica della milonga, pur con i suoi difetti, un’inevitabile stratificazione interna e una certa dose di settarismo, sia chiaramente un gruppo bridging. Non è infrequente ascoltare testimonianze di chi osserva con stupore la possibilità di ballare, e quindi di relazionarsi, con persone da cui sarebbe altrimenti separato da barriere di ceto e di ambiente sociale.
Così Putnam:

le relazioni sociali sono rilevanti anche per le regole di comportamento che sorreggono. E reti non sono interessanti in quanto meri contatti, ma perché implicano (quasi per definizione) obbligazioni reciproche. I reticoli caratterizzati da impegno nei confronti della comunità stimolano solide norme di reciprocità (Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, il Mulino, Bologna 2004, p. 14)
Dunque questa rete di obbligazioni reciproche non costituisce soltanto la banale possibilità di aver sottomano una spalla per piangere, una conoscenza sfruttabile altrove, oppure la possibilità di attingere ad uno svago facilmente accessibile. Nel loro insieme esse arricchiscono e consolidano la trama dei propri indici di senso, cioè quella serie di riferimenti immediatamente decodificabili senza i quali l’individuo vivrebbe in una dimensione opaca ed inconoscibile, eternamente fluttuante, insidiata da disagio e paura.
Andando al di là dello specifico messaggio del libro è ora facile vedere lo scarto con alcuni aspetti tipici della modernità, in particolare il vivere di corsa e da soli, alle prese con modelli di comunicazione immateriali, quindi slegati dalla presenza. Essi facilitano le relazioni ma non il contatto autentico con le persone. La possibilità dell’anonimato, della distorsione della realtà o della menzogna deliberata producono una comunicazione che avviene spesso in forme imperfette, elusive, parziali e contraddittorie, dove anzi la mancanza di senso, l’esclusione o l’inautenticità sono rischi sempre più evidenti.
Andare a milonga presuppone non solo l’essere fortemente centrati sul corpo, dunque sulla forma più indiscutibilmente perentoria di ‘qui ed ora’, ma anche la capacità di costruire un dialogo reale, senza maschere o infingimenti, in cui la persona che abbiamo fra le braccia è riconosciuta è accettata prima di tutto come cosa diversa da sé.
Verrebbe immediato il paragone con il filosofo Emmanuel Lévinas (Kaunas, 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) ed in particolare la centralità dell’incontro con l'Altro, scritto significativamente con la maiuscola. Poiché l’uomo si fa soggetto per l’altro uomo, la sua identità consiste nella responsabilità di fronte a lui, quindi trascende sé stesso. Solo nell'accoglienza possiamo comprendere e superare la nostra percezione di un esistenza anonima. Ma l’idea di abbraccio nella danza corrisponde proprio ad accogliere un estraneo in uno spazio che di solito è privato, escluso dal contatto altrui. Presuppone necessariamente l’idea di fiducia, ovvero l’aspettativa di un’esperienza desiderabile nata in una condizione di incertezza, ma accompagnata da un sovrassenso emotivo che la collochi oltre la soglia della mera speranza. Dunque, per tornare a Lévinas, l'abbraccio non sarebbe altro che la forma di 'essere-per-l'altro' a cui è tassativamente impossibile sottrarsi, legata com'è alla nostra stessa corporeità.
Dal mio personalissimo punto di vista mi pare che questo sia un aspetto nodale, poiché nella società attuale si percepisce una continua ed irrisolta tensione fra due poli opposti. Da un lato, la condivisibile affermazione che non si può dare felicità agli altri se prima non si sta bene con sé stessi, cui si aggiunge un altrettanto sensato corollario che descrive le persone capaci di volersi bene come pronte ad attirare quasi magneticamente altri esseri umani. Dal canto opposto, la constatazione che questa legittima ricerca, all’atto pratico, finisca per essere spesso declinata in prima persona singolare: io.
Talvolta si coglie l’esortazione a voler bene anzitutto a sé, a gratificarsi, mettendo in primo piano la soddisfazione dei propri bisogni e l’appagamento personale, in una dimensione individuale e privata, se non addirittura a scapito di interessi altrui. Non è raro ascoltare l'insistente raccomandazione di bastare sempre a sé stessi, l’invito ad essere fortemente centrati sulla propria persona quale via maestra per la realizzazione personale nonché  assicurazione infallibile contro l’infelicità e la delusione: se infatti non mi lego ad alcuno evito di mettergli in mano un’arma che potrà usare contro di me, concedendogli ad esempio il potere di ferirmi quando inevitabilmente mi abbandonerà o mi tradirà; se non faccio affidamento su condizioni esterne non verrò travolto dal loro più o meno sicuro crollo; se infine non includo gli altri nei miei progetti eviterò di dover spartire i benefici con loro.
Si pensi solo all’intensità delle discussioni e dei dibattiti che si addensano attorno ad un tema per altro legittimo quale la ricerca dell’autostima, ovvero – si notino i corsivi - il personale giudizio che il singolo elabora del suo valore personale. L’ambizione a rendere minimo lo scalino tra l’immagine che si ha di se stessi e ciò effettivamente esprimiamo e realizziamo catalizza oggi emozioni e aspettative che un tempo erano esclusive delle fedi in senso tradizionale o delle idealità politiche, cioè percorsi fondati su un bene da costruire e raggiungere assieme: come comunità di credenti, nel primo caso, collettività secolare, nell’altro. Non è raro vedere persone immergersi nella lettura di manuali di auto-aiuto con la stessa carica di aspettative con cui le generazioni precedenti compulsavano S. Ignazio di Loyola o dibattevano il Libretto rosso.
La pratica sociale del tango avrebbe invece alcune caratteristiche del tutto particolari che non sarebbe immediato ritrovare in altri percorsi. Non soltanto il personale benessere dell’uno rimane irraggiungibile se egli non si preoccupa prima di tutto di quello dell’altro, ma in assenza di questo presupposto tale obiettivo non è neppure pensabile, esattamente come non è pensabile una mezza sedia: mobile per definizione non funzionale, semplice aggregato di legno e chiodi, privo di utilità.
Se si astrae per un attimo dalla differenziazione uomo-donna è inoltre facile vedere come i due aspetti siano del tutto speculari. Non si tratta infatti di un rapporto fra maestro e discepolo, fra allenatore e atleta, fra leader e gregario, tutti casi dove la relazione è giustificata dal riconoscimento e dall’accettazione di una specifica asimmetria relazionale. Né pare del tutto assimilabile ad altre forme di cooperazione come lo sport di squadra, l’associazionismo o l’impegno civile, quando invece l’aspetto normativo è in primo piano. Si tratta invece di una forma di socialità su basi paritarie che presuppone la rinuncia ad un tornaconto personale per la costruzione di un bene condiviso.
Si possono quindi trarre due conclusioni.
La prima è l’indicazione di una possibile via interiore per trascendere la logica dell’effimero, quella pulsione che spinge a riempire il vuoto di un presente angosciante colmando la propria solitudine con altre solitudini. Una Babele di desideri frustrati, di aspettative ostentate, di esistenze incomunicabili colme di ombre feroci e inafferrabili. La cupa e deprimente versione del noto concetto mordi e fuggi della storia d’amore di tre minuti e mezzo: tanto domani è un altro giorno.
La seconda è la convinta adesione ad un modello di mutuo beneficio come cornice ideale delle proprie azioni, ovvero - per quelli che abbiano familiarità con i concetti elaborati della teoria dei giochi - la cosiddetta win/win strategy.
La stessa idea di bene condiviso pone sul tappeto anche i modelli culturali e sociali che usiamo come metro di giudizio per valutare il nostro successo. Spinge infatti a far chiarezza sul senso ultimo delle proprie azioni, o – se si preferisce – induce ad interrogarci sulla singolare distonia fra ciò che leggiamo negli altri come indici di avvenuta realizzazione esistenziale e l’effettiva desiderabilità delle loro esistenze.
Sia chiaro. Quanto più una teoria è seducente tanto più la sua applicazione pratica rischia di essere ardua, scivolosa e pertanto fonte di brucianti disillusioni, come del resto tutti i percorsi che si basano sulla speranza di un bene futuro e quindi aprono all’incerto come premessa necessaria. Ma varrebbe forse la pena di tentare, specie se si considera quanto dolore sia causato dalle molteplici forme in cui si dispiega oggi la violenza di genere oppure da tutte quelle relazioni distorte che si basano sulla prevaricazione, sull’esercizio di un controllo o sulla manipolazione dell’altro. Piace sperare come piccole cose aiutino a sollevare lo sguardo dal cerchio ristretto delle nostre personali miserie, scoprendo scenari inaspettati che collocano la ricerca della felicità in un contesto del tutto nuovo.

Cosa è piaciuto
  • Proposta di un itinerario orientato al cambiamento e allo sviluppo, permeato da una visione di fondo positiva;
  • Bilanciamento fra rigore scientifico e chiarezza espositiva
 Cosa non è piaciuto
  • Nulla
Giudizio in una riga: Un confortante messaggio di speranza, ispirato da una fiducia realistica nelle possibilità umane.

La frase da ricordare: “Nella relazione, il maggior nemico è la rigidità, non il cambio di ruolo”

Scheda: Psicotangoterapia : danzare nell'abbraccio per cambiare / Edoardo Giusti, Veronica Marsiglia - Roma : Sovera, 2011. - 183 p. ; 21 cm. - ISBN 978-88-8124-966-4 Euro 16.00

4 commenti:

  1. ho incontratosoltanto persone rigide disturbate nelmio cammino io avevo un cuore sincero puro ed aperto al dialogo corporeo chiaro che non trovo normale chi sia chiuso ed ottuso sopratutto ilsecondo genere umano noncercano iauti ne chi gli getti alcun genre di ponti..bello il bridging e si ora cisono posti dove il bridging si svolge e lostesso tutto resta fluttuante e nell' aria resta gente insensibile e meschina.io ho imparato a rcucire cio che si scuce i vestitini alle mie vecchie barbie quelle che erano rimaste in mutandine senza rggiseno.. mi diverto unmondo utilizzo i miei collant ed un ago..a giugno i figli di elizabeth un amica potranno giocando distruggere dnuovo il tutto e..io ricucirlo come fece penelope fedelmente .. fors ancheiltango e' unvestito cucito sumisura che cisitoglie emette ci piace perche se siscuce lo siripara e perche non ci sipuo pentire per un abbraccio se viene dalcuore..e'vibrazione energia che fluttua da un corpo ad unaltro corpo.

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  2. Non ne so molto di psicologia e mi piaceva l’idea di capirci qualcosa aiutandomi con un argomento che ho a cuore, la tua recensione mi hai aiutato a far chiarezza su alcuni punti e mi ha spronato a documentarmi su altri. Mi affascina l’idea di poter curare o meglio, aiutare a curare, con qualcosa di piacevole, non chimico, e a costo zero un così alto numero di patologie.
    Avrei qualcosa da dire sulla ricerca del benessere declinato alla prima persona singolare. Sono del parere che per stare bene con gli altri devi prima di tutto stare bene con te stesso. Questo non significa soddisfare montagne di bisogni materiali, significa raggiungere un determinato equilibrio interiore che ti consente di giudicarti senza troppa severità, che ti aiuta a valorizzare le tue peculiarità e a correggere, se puoi, i tuoi difetti, se non puoi ad accettarli e a perdonarti con serenità, significa capire quando hai bisogno di aiuto ed imparare ad accettarlo. Arrivi poi facilmente a scoprire come questo tuo atteggiamento faccia stare bene gli altri e non c’è maggior gratificazione del fatto che chi ti circonda sta bene, si sente sostenuto, protetto, aiutato o semplicemente ascoltato. Non servono grandi azioni. Le piccole cose del quotidiano, semplici gesti, una parola, un guardare oltre il nostro naso. Diventa un circolo vizioso: tu stai bene, gli altri stanno bene. Direi che qua confondiamo un po’ lo star bene con il raggiungere una condizione economicamente agiata e l’autostima con la posizione ai vertici della piramide sociale. Ci sono persone che guadagnano il minimo sindacale con lavori considerati da “paria” che sono molto più felici di Top Manager, depressi a bordo del loro yacht.
    Direi che la seconda parte è particolarmente ricca e ci sono argomentazioni interessanti che forse piacerebbe conoscere anche agli autori.
    Una compagna di tango.

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  3. per curare c'e il cibo per curare c'e il colore per curare ce l amore per curare c'e l amicizia la soddisfazione che oggi ho avuto non ha prezzo i miei vanguards non importa l entry in top ten.ho avuto. niente viene dato a costo zero. mi e' piaciuto quest ultimo decennio dell amia vita ho tanto fatto ed ha avutoun suo frutto ed un senso nel tempo ho avuto. aiutare per mezzo del ballo ?candelette votive con la faccia di canaro o di c di sarli ? tango come opera di bene? i benefattori..alt achtung! molti milngueros son minute men ..molti altri guardiani deltempo i " cara..la diaria oggimi concede un mese possiamo fare all amore ogni giorno un ora e 11minuti in piu'" e' nient altroche un ballo riazzeriamolo , la medicina migliore? cambiare insieme al nostro orologio biologico .e' andarcene da qui sapendodove stiamo andando sapere di essere serviti a qualcuno nei suoi angoli concavi o convessi...e' una magra magra consolazione. ad alcun basterebbe la vicinanza astrale l inquadratura a fuoco delnostro pianeta ..venere ci inercetta in giugno.io aspetto .....

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  4. SE VOLETE ESSERE FELICI .UN ORA FATEVI UN PISOLINO
    SE VOLETE ESSEREFELICI ..UN GIORNO..ANDATEVENE A PESCA
    ..UN MESE..SPOSATEVI ...UN ANNO...GODETEVI UN EREDITA'
    ..SE VOLET ESSER FELICIUNA INTERA VITA ..AIUTATE QUALCUNO

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