sabato 9 novembre 2013

Recensione: Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo



A quell'epoca -  lo ricordo ancora vividamente - ero capace di ballare utilizzando solo la sciatta versione di un improbabile abbraccio largo, da poco appreso a lezione. Ma una sera fui gratificato per la prima volta da un contatto che iniziava dalle tempie e sprofondava verso il torace per poi dissolversi in qualche zona imprecisa all’altezza delle anche. Era una forma inedita di gradimento senza riserve oppure una modalità di ballo che prima non avevo mai sperimentato? Lo sguardo carezzevole di lei nasceva della sostanza immateriale della danza, oppure da un’altra, ben più solida e corporea?
Feci così conoscenza con uno degli aspetti più insidiosi della pratica sociale del tango: l’ambivalenza. Gesti, situazioni e rapporti tra esseri umani non hanno un significato stabilito, bensì vivono di una natura sfuggente ed elusiva, si prestano cioè a venir letti e interpretati in modo del tutto diverso dalla loro intenzione originale. Questo è proprio uno dei meccanismi tipici della gelosia, dove una situazione del tutto normale viene vissuta come se possedesse un valore diverso, il che diventa la premessa per una grande quantità di sofferenza inflitta a se stessi e agli altri.
Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo è la versione con l’adattamento e la regia di Massimo Navone (produzione Tieffe/MaMiMò) andata in scena al teatro Giovanni da Udine il 5 novembre 2013 nell’ambito della rassegna Crossover-Teatro Arti in Scena.
Il dramma viene trasportato in un’ambientazione sudamericana degli anni quaranta, all’interno di una milonga, il Sagittario, sfondo ideale per una vicenda di potere, manipolazione e di cupe ossessioni che trova nell’ambiente del tango la sua cornice ideale. La danza non è un semplice abbellimento esteriore ma agisce come un amplificatore di emozioni, ingigantisce gli eventi, li riveste di un nuovo significato. Il contatto dei corpi, gli sguardi, i gesti e in genere tutte le ambiguità della comunicazione non verbale sono qui il carburante della gelosia, il mostro dagli occhi verdi che esploderà nel drammatico finale.
L’auesto adattamento vale dunque come ennesima conferma della vitalità di questa danza, la cui forza specifica non sta tanto nella capacità di restare sé stessa, fedele alle sue origini, bensì nell’attitudine a generare costantemente significati nuovi entrando in relazione con fenomeni culturali anche diversissimi, generando ibridazioni, messaggi inediti perlopiù non compresi nell’idea originale.
Molto efficace la scenografia, in linea con il gusto moderno di proporre ambientazioni essenziali, ma senza cadere in un minimalismo troppo spinto. Gradevole il registro cromatico tutto giocato sul toni del piombo e del nocciola, assai suggestivo nel creare una vivida suggestione d’ambiente.

  
Gli stessi colori vengono ripresi dalle divise dei protagonisti maschili con un’ involontaria strizzata d’occhio all’Hamlet di Kennet Branagh (1996), dove invece le uniformi impeccabili giocate sui toni scuri rimandano ad un’efficienza nordica, astratta e impersonale.



Qui  invece il color cachi e le fogge cadenti evocano un’humedad sudamericana, qualcosa di sbracato e di liso che vedremmo bene addosso al colonnello Aureliano Buendia. Come in una sperduta Macondo, l’azione si svolge in un’isola, circondata da uno spazio ostile dove la presenza del nemico è rivelata da molteplici e sottili allusioni. La situazione rimanda ad un topos della letteratura d’armi ovvero la contrapposizione tra uno spazio esterno, territorio della sopraffazione e della morte, e un ambiente chiuso e relativamente protetto dove la musica, il canto o in generale qualche forma di espressione artistica consente di entrare in contatto con una dimensione umana temporaneamente smarrita. Tra i tanti esempi un delicato frammento di Umberto Saba, tratto dal Teatro degli Artigianelli:

[…]
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il canone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Anche al Sagittario è tutto un trasmigrare di bottiglie e di bicchieri, ma qui l’allusione va alle tante letras di tango dove l’alcool non è riposo e provvidenziale ottundimento dei sensi, ma veleno mortale che acuisce una pena, la rende viva e presente. 
Tutto lo spettacolo è giocato del resto su una violazione dei codici più o meno scoperta. Bella la scelta di far partecipare come ballerini gli appassionati di tango del locale circolo Arci Zoo (pienamenti convincenti in un ruolo certo non facile) come pure l’invito a danzare rivolto al pubblico nell’intervallo. Sono due proposte che erodono i tradizionali confini tra professionisti e dilettanti della scena, come pure quelli tra spettatori e pubblico. Ma non va dimenticata la commistione tra brani del repertorio tradizionale e sonorità elettroniche firmate da orchestre contemporanee, come pure gli stessi movimenti degli attori sulla scena. Questi spesso riprendono gli stilemi delle esibizioni da palcoscenico, una situazione dove i ballerini professionisti giocano regolarmente con l’attrazione e la repulsione dei corpi.

Su questo aspetto è opportuno spendere qualche parola in più. Spesso ci si compiace di descrivere la relazione d’abbraccio come una accoglienza generosa dell’altro, ma in due esseri umani che ballano c’è anche molto di lotta, di conquista dello spazio, di forza.

 
Il confine tra due corpi che lottano e due corpi che si abbracciano è infatti permeabile e fluttuante: basta uno scarto minimo per passare dall’amore alla gelosia.
Ed è in questo punto che si misura tutta l’intelligenza della proposta di Navone. Da un lato una danza complessa basata su ruoli di genere netti che richiedono l’assunzione (ancorché temporanea) di modelli precisi e non negoziabili, di comportamenti funzionali e di attitudini precise senza i quali l’esperienza del ballo non è realizzabile e neppure pensabile. Dall’altro un’interpretazione della modernità secondo la quale gli uomini uccidono sì le donne, ma solo perché la messa in discussione dei rapporti tra i sessi gli ha lasciati disorientati e senza certezze. Essi sarebbero quindi le variabili impazzite della società, incapaci di adattarsi ai cambiamenti socioculturali, intenti a lanciare richieste di aiuto affinché cessi questo pericoloso processo di destabilizzazione dell’ordine naturale. Basta dunque dichiarare di essersi sbagliati e tornare al punto di partenza.
E ancora riecheggiano le voci di quanti si preoccupano di ricondurre il delitto passionale ad una forma di amore portato all’eccesso, afflitto da una sorta di dismisura patologica della quale il maschio si sente in genere irresponsabile: “L’ho uccisa perché l’amavo”, è l’auto assoluzione tipica riportata dalle cronache giornalistiche. Oppure la giustificazione della violenza come re-azione maschile causata da un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose, da rivendicazioni andate troppo oltre, da atteggiamenti provocatori che hanno radicalizzato il conflitto portandolo alle estreme conseguenze. L’eterno ritornello della colpevolizzazione della vittima.
Dunque un conflitto in corso. Una guerra tra generi, come quella tra Otello e Desdemona, rappresentata sullo sfondo di una guerra in senso pieno, evocata dal suono degli allarmi, dalle divise, dalla rappresentazione della violenza. Entrambe sono forme istituzionalizzate di sopraffazione, vengono cioè presentate come necessarie e inevitabili, ma tutte e due svelano alla fine la loro inutilità. Lo scontro di fuori si conclude senza vincitori né vinti, lo scontro dentro le pareti della milonga termina con la morte, ovvero con la dimostrazione perentoria della fallacia e della transitorietà di ogni esperienza umana. Ancora un tangoed è l’ultimo, ammonisce giustamente il titolo, giocando ancora una volta con l’ambiguità.
La nostra cultura ha sviluppato una strana infatuazione per il concetto di primo. Il primo bacio, la prima teatrale, il primo a realizzare questa o quella cosa. Ma è forse l’idea di ultimo ad avere più spessore, poiché il sapore di quanto gustiamo alla fine ci accompagna verso il dopo, chiude un’esperienza e getta i semi per ciò che verrà poi. Piero Chiara, in Vedrò Singapore?, un delizioso romanzo che a dispetto del titolo è ambientato tra Trieste e il Friuli, ci ricorda che l’amore più bello non è il primo, spesso imperfetto e acerbo, bensì l’ultimo, quello scoperto nell’età matura, che chiude il cerchio, ricongiunge gli estremi e accompagna verso il momento in cui si spegneranno le luci.
Nella vita come come su un palcoscenico.

1 commento:

  1. la ringrazio di cuore per l’attenzione e la profondità con cui ha saputo leggere e restituire le intenzioni dello spettacolo. Giro il link a tutta la compagnia che come ha visto è composta di attori giovani che si giocano il tutto per tutto misurandosi con un testo di enorme difficoltà e impegno e che le saranno certamente grati di quello che ha scritto.

    Con tutto l’affetto e la stima, sperando che ci siano occasioni di conoscersi presto.

    Massimo Navone

    RispondiElimina