A quell'epoca - lo
ricordo ancora vividamente - ero capace di ballare utilizzando solo la sciatta versione di
un improbabile abbraccio largo, da poco appreso a lezione. Ma una sera fui gratificato
per la prima volta da un contatto che iniziava dalle tempie e sprofondava
verso il torace per poi dissolversi in qualche zona imprecisa all’altezza delle
anche. Era una forma inedita di gradimento senza riserve oppure una
modalità di ballo che prima non avevo mai sperimentato? Lo sguardo carezzevole
di lei nasceva della sostanza immateriale della danza, oppure da un’altra, ben
più solida e corporea?
Feci così conoscenza con uno degli aspetti più insidiosi della pratica sociale del tango: l’ambivalenza. Gesti,
situazioni e rapporti tra esseri umani non hanno un significato stabilito,
bensì vivono di una natura sfuggente ed elusiva, si prestano cioè a venir letti
e interpretati in modo del tutto diverso dalla loro intenzione originale.
Questo è proprio uno dei meccanismi tipici della gelosia, dove una situazione
del tutto normale viene vissuta come se possedesse un valore diverso, il che
diventa la premessa per una grande quantità di sofferenza inflitta a se stessi
e agli altri.
Otello. Ancora un tango… ed è l’ultimo è la versione
con l’adattamento e la regia di Massimo Navone (produzione Tieffe/MaMiMò)
andata in scena al teatro Giovanni da Udine il 5 novembre 2013 nell’ambito
della rassegna Crossover-Teatro Arti in Scena.
Il dramma viene trasportato in un’ambientazione
sudamericana degli anni quaranta, all’interno di una milonga, il Sagittario,
sfondo ideale per una vicenda di potere, manipolazione e di cupe ossessioni che
trova nell’ambiente del tango la sua cornice ideale. La danza non è un semplice
abbellimento esteriore ma agisce come un amplificatore di emozioni, ingigantisce gli
eventi, li riveste di un nuovo significato. Il contatto dei corpi, gli sguardi,
i gesti e in genere tutte le ambiguità della comunicazione non verbale sono qui
il carburante della gelosia, il mostro dagli occhi verdi che esploderà nel drammatico
finale.
L’a
dattamento
vale dunque come ennesima conferma della vitalità di questa danza, la cui forza
specifica non sta tanto nella capacità di restare sé stessa, fedele alle sue
origini, bensì nell’attitudine a generare costantemente significati nuovi
entrando in relazione con fenomeni culturali anche diversissimi, generando
ibridazioni, messaggi inediti perlopiù non compresi nell’idea originale.
Molto efficace la scenografia, in linea con il gusto moderno
di proporre ambientazioni essenziali, ma senza cadere in un minimalismo troppo
spinto. Gradevole il registro cromatico tutto giocato sul toni del piombo e
del nocciola, assai suggestivo nel creare una vivida suggestione d’ambiente.
Gli stessi colori vengono ripresi dalle divise dei
protagonisti maschili con un’ involontaria strizzata d’occhio all’Hamlet di
Kennet Branagh (1996), dove invece le uniformi impeccabili giocate sui toni
scuri rimandano ad un’efficienza nordica, astratta e impersonale.
Qui invece il color
cachi e le fogge cadenti evocano un’humedad sudamericana, qualcosa di
sbracato e di liso che vedremmo bene addosso al colonnello Aureliano Buendia.
Come in una sperduta Macondo, l’azione si svolge in un’isola, circondata da uno
spazio ostile dove la presenza del nemico è rivelata da molteplici e sottili
allusioni. La situazione rimanda ad un topos della letteratura d’armi ovvero la
contrapposizione tra uno spazio esterno, territorio della sopraffazione e della
morte, e un ambiente chiuso e relativamente protetto dove la musica, il canto o
in generale qualche forma di espressione artistica consente di entrare in
contatto con una dimensione umana temporaneamente smarrita. Tra i tanti esempi un delicato frammento di Umberto Saba,
tratto dal Teatro degli Artigianelli:
[…]
Tra
un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia
parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo,
cui rimargina ferite,
gli
chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto
qui da spaventosi esigli,
si
scalda a lui come chi ha freddo al sole.
Questo
è il Teatro degli Artigianelli,
quale
lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro,
un giorno
di
Settembre, che a tratti
rombava
ancora il canone, e Firenze
taceva,
assorta nelle sue rovine.
Anche al Sagittario è tutto
un trasmigrare di bottiglie e di bicchieri, ma qui l’allusione va alle tante letras
di tango dove l’alcool non è riposo e provvidenziale ottundimento dei sensi, ma
veleno mortale che acuisce una pena, la rende viva e presente.
Tutto lo spettacolo è giocato del resto su una violazione
dei codici più o meno scoperta. Bella la scelta di far partecipare come ballerini gli appassionati di tango del locale circolo Arci Zoo (pienamenti convincenti in un ruolo certo non facile)
come pure l’invito a danzare rivolto al pubblico nell’intervallo. Sono due proposte
che erodono i tradizionali confini tra
professionisti e dilettanti della scena, come pure quelli tra spettatori e
pubblico. Ma non va dimenticata la commistione tra brani del repertorio
tradizionale e sonorità elettroniche firmate da orchestre contemporanee, come
pure gli stessi movimenti degli attori sulla scena. Questi spesso riprendono gli
stilemi delle esibizioni da palcoscenico, una situazione dove i ballerini
professionisti giocano regolarmente con l’attrazione e la repulsione dei corpi.
Su questo aspetto è opportuno spendere qualche parola in più. Spesso ci si compiace di descrivere la relazione d’abbraccio come una accoglienza generosa dell’altro, ma in due esseri umani che ballano c’è anche molto di lotta, di conquista dello spazio, di forza.
Il confine tra due corpi che lottano e due corpi che si
abbracciano è infatti permeabile e fluttuante: basta uno scarto minimo per
passare dall’amore alla gelosia.
Ed è in questo punto che si misura tutta l’intelligenza
della proposta di Navone. Da un lato una danza complessa basata su ruoli di
genere netti che richiedono l’assunzione (ancorché temporanea) di modelli
precisi e non negoziabili, di comportamenti funzionali e di attitudini precise
senza i quali l’esperienza del ballo non è realizzabile e neppure pensabile.
Dall’altro un’interpretazione della modernità secondo la quale gli uomini uccidono sì le donne, ma solo perché la messa in discussione dei rapporti
tra i sessi gli ha lasciati disorientati e senza certezze. Essi sarebbero
quindi le variabili impazzite della società, incapaci di adattarsi ai
cambiamenti socioculturali, intenti a lanciare richieste di aiuto affinché
cessi questo pericoloso processo di destabilizzazione dell’ordine naturale. Basta
dunque dichiarare di essersi sbagliati e tornare al punto di partenza.
E ancora riecheggiano le voci di quanti si preoccupano di
ricondurre il delitto passionale ad una forma di amore portato all’eccesso,
afflitto da una sorta di dismisura patologica della quale il maschio si sente
in genere irresponsabile: “L’ho uccisa perché l’amavo”, è l’auto assoluzione
tipica riportata dalle cronache giornalistiche. Oppure la giustificazione della
violenza come re-azione maschile causata da un sovvertimento dell’ordine
naturale delle cose, da rivendicazioni andate troppo oltre, da atteggiamenti
provocatori che hanno radicalizzato il conflitto portandolo alle estreme
conseguenze. L’eterno ritornello della colpevolizzazione della vittima.
Dunque un conflitto in corso. Una guerra tra generi, come
quella tra Otello e Desdemona, rappresentata sullo sfondo di una guerra in senso pieno,
evocata dal suono degli allarmi, dalle divise, dalla rappresentazione della
violenza. Entrambe sono forme istituzionalizzate di sopraffazione, vengono cioè
presentate come necessarie e inevitabili, ma tutte e due svelano alla fine la
loro inutilità. Lo scontro di fuori si conclude senza vincitori né vinti, lo
scontro dentro le pareti della milonga termina con la morte, ovvero con la
dimostrazione perentoria della fallacia e della transitorietà di ogni
esperienza umana. Ancora un tango …ed è l’ultimo, ammonisce
giustamente il titolo, giocando ancora una volta con l’ambiguità.
La nostra cultura ha sviluppato una strana infatuazione per
il concetto di primo. Il primo bacio, la prima teatrale, il primo a realizzare questa
o quella cosa. Ma è forse l’idea di ultimo ad avere più spessore,
poiché il sapore di quanto gustiamo alla fine ci accompagna verso il
dopo, chiude un’esperienza e getta i semi per ciò che verrà poi. Piero Chiara,
in Vedrò Singapore?, un delizioso romanzo che a dispetto del titolo è
ambientato tra Trieste e il Friuli, ci ricorda che l’amore più bello non è il
primo, spesso imperfetto e acerbo, bensì l’ultimo, quello scoperto nell’età
matura, che chiude il cerchio, ricongiunge gli estremi e accompagna verso il
momento in cui si spegneranno le luci.
Nella vita come come su un palcoscenico.
la ringrazio di cuore per l’attenzione e la profondità con cui ha saputo leggere e restituire le intenzioni dello spettacolo. Giro il link a tutta la compagnia che come ha visto è composta di attori giovani che si giocano il tutto per tutto misurandosi con un testo di enorme difficoltà e impegno e che le saranno certamente grati di quello che ha scritto.
RispondiEliminaCon tutto l’affetto e la stima, sperando che ci siano occasioni di conoscersi presto.
Massimo Navone